Mauro Pompili
Perché una ragazza siriana in fuga dall'ISIS decide di arruolarsi ed andare a fare la guerra. La fuga da Kesab dove "i turchi hanno fatto passare gli jihadisti"
BEIRUT - Seguiamo Vasquen per le stradine contorte di Bourj Hammoud, comune della cintura periferica di Beirut, fino al minuscolo appartamento dove vive da rifugiato con la sua famiglia. All’interno ci accoglie la moglie Güle che tiene in braccio l’ultimo figlio. Sono siriani, lui armeno lei curda, sono fuggiti da Kesab quando la città è caduta nelle mani degli estremisti islamici. Güle, i nomi sono di fantasia per ragioni di sicurezza, vuole raccontare la storia di sua sorella “che sta combattendo le bestie dell’ISIL a Kobane.”
La caduta di Kesab
I due si sono conosciuti all’università di Aleppo, dopo il matrimonio si erano trasferiti a Kesab, la città natale del marito. “Ad aprile, quando il Fronte al-Nursa ha attaccato la città, in pochi abbiamo preso le armi e la nostra resistenza è stata inutile. Anche perché i turchi hanno aiutato gli integralisti facendoli passare dal loro territorio.”
La resistenza a Kesab non dura a lungo. “Oltre che pochi eravamo inesperti”. Mentre parla si tira su la manica per mostrare due cicatrici. “Niente di eroico, sono bruciature dei bossoli del mitragliatore. Me le sono fatta da sola, non sono un’esperta di armi, ma non potevo restare a guardare.” La caduta della città ha segnato la vita di Güle e della sua famiglia. Lei il marito e i tre figli sono fuggiti verso il Libano. “Chanour, mia sorella più giovane, invece è andata verso il Kurdistan iracheno, decisa a fare qualcosa di concreto per il nostro popolo.”
La resistenza a Kesab non dura a lungo. “Oltre che pochi eravamo inesperti”. Mentre parla si tira su la manica per mostrare due cicatrici. “Niente di eroico, sono bruciature dei bossoli del mitragliatore. Me le sono fatta da sola, non sono un’esperta di armi, ma non potevo restare a guardare.” La caduta della città ha segnato la vita di Güle e della sua famiglia. Lei il marito e i tre figli sono fuggiti verso il Libano. “Chanour, mia sorella più giovane, invece è andata verso il Kurdistan iracheno, decisa a fare qualcosa di concreto per il nostro popolo.”
Da Kesab a Kobane per difendere il proprio popolo
Chanour, racconta sua sorella, ha 22 anni e studia ingegneria. A Kesab era arrivata da poco, dopo ave abbandonato Aleppo. “Gli orrori visti compiere dagli integralisti nei due anni di guerra passati in città l’hanno convinta che non poteva restare inerti. Ad Aleppo aveva già partecipato ad alcune battaglie. Quando l’ISIL ha iniziato la sua campagna nel Kurdistan iracheno ci ha raggiunto con l’obiettivo di unirsi ai fratelli curdi in armi.” Chanour da Kesab con mille difficoltà riesce a raggiungere Erbil, in Iraq, e si unisce all’YPJ (Forza di protezione femminile) dell’YPG (Forza di protezione del popolo curdo). Partecipa alle battaglie della regione di Mosul. Dopo rientra in Siria e ora è impegnata nella difesa di Kobane, dove 22 anni fa era nata.
Una grande paura: essere presa prigioniera
“Ogni tanto riusciamo a sentirci. Mi racconta degli scontri, del coraggio dei suoi compagni e della bestialità dei nemici. Dice che ha solo una grande paura, quella di cadere viva nelle mani dei jihadisti. Giorni fa mi ha detto che avrebbe voluto fare come Alin, il loro capitano.”
Arin Mirkan è ormai un esempio da imitare per le donne curde che combattono l’ISIL. Aveva 24 anni, era un comandante della YPJ a Kobane e madre di due bambini. Rimasta isolata in un sobborgo della città e a corto di munizioni. Piuttosto che farsi catturare viva si è fatta esplodere vicino a una postazione dell’ISIL, uccidendo una ventina di jihadisti e distruggendo un mezzo blindato.
Arin Mirkan è ormai un esempio da imitare per le donne curde che combattono l’ISIL. Aveva 24 anni, era un comandante della YPJ a Kobane e madre di due bambini. Rimasta isolata in un sobborgo della città e a corto di munizioni. Piuttosto che farsi catturare viva si è fatta esplodere vicino a una postazione dell’ISIL, uccidendo una ventina di jihadisti e distruggendo un mezzo blindato.
Le donne curde in armi
La presenza di donne nelle file dei peshmarga non è una novità. Il primo reclutamento ufficiale di donne all'interno dell'esercito curdo risale al 1996, anno in cui i peshmarga combattevano contro il leader iracheno Saddam Hussein. Tra le più famose combattenti curde il Colonnello Nahida Ahmed Rashid, comandante di un battaglione dell’YPJ, qualche centinaio di guerrigliere pronte a sacrificare la vita. Le motivazioni che spingono le donne curde ad affrontare i miliziani dell'ISIL le ha spiegate proprio il Colonnello Rashid. “Credo in una causa superiore, che è la protezione delle nostre famiglie e delle nostre città dall'estremismo, dalla brutalità e dall'oscurantismo. Loro non accettano donne che assumono ruoli di comando. Vogliono che ci copriamo e diventiamo casalinghe, con il solo scopo di rispondere ai loro bisogni. Loro credono che non abbiamo alcun diritto di parlare e che possono controllare le nostre vite.”
Credere in un Medio Oriente diverso
Con questo spirito è partita per Kobane anche Chanour. “Sono coraggiose, ma sono disperate – dice Güle – pochi giorni fa l’ho sentita e mi ha raccontato che la situazione è davvero difficile. Combattono quasi casa per casa e l’aiuto dei bombardamenti occidentali non è sufficiente. I raid mettono fuori uso i blindati, ma la battaglia vera e uno contro l’altro. Per qualche giorno l’hanno costretta al riposo perché aveva una brutta febbre, dice che anche i medicinali sono pochi.”
Poi nella voce di Güle la rabbia prende il posto della preoccupazione. “Vorrei raggiungerla e combattere per difendere il futuro dei miei figli, ma Vasquen non vuole. Dice che i nostri figli hanno bisogno di noi, e tra sei mesi ne nascerà un altro. Sogno solo il momento in cui riabbraccerò Chanour e festeggeremo la sua vittoria su quegli animali che tengono in ostaggio tutto l’Islam.”
Poi nella voce di Güle la rabbia prende il posto della preoccupazione. “Vorrei raggiungerla e combattere per difendere il futuro dei miei figli, ma Vasquen non vuole. Dice che i nostri figli hanno bisogno di noi, e tra sei mesi ne nascerà un altro. Sogno solo il momento in cui riabbraccerò Chanour e festeggeremo la sua vittoria su quegli animali che tengono in ostaggio tutto l’Islam.”
La paura per la sorte di Chanour è motivata. Un paio di settimane fa è arrivata la notizia della decapitazione di quattro soldati curdi catturai a Kobane. Le teste erano state esposte sul bancone di un mercato nella città di Jarablus e tre di loro erano donne. “Sono un armeno cristiano – dice Vasquen, mentre ci salutiamo – e mia moglie una curda musulmana, ma siamo tutti e due siriani. Non voglio che la nostra famiglia sia la memoria di quello che era la convivenza in Siria fino al 2011, voglio che sia la promessa per il Medio Oriente che dovrà sorgere.”

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