mercoledì 12 novembre 2014

UNHCR: 13,6 milioni i rifugiati in Iraq e Siria...



L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ha denunciato ieri l’indifferenza della comunità internazionale verso gli sfollati siriani e iracheni e ha lanciato l’allarme: “990.000 persone saranno senza gli aiuti necessari a superare l’inverno”



Nena News – Sono 13,6 milioni i rifugiati siriani e iracheni. Molti di loro sono senza cibo e senza riparo. A rivelarlo è l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) che ha denunciato l’indifferenza dell’intera comunità internazionale. “O parliamo di un milione di sfollati in due mesi, o di 500.000 in una notte, il mondo lo stesso non risponde” ha denunciato ieri Amin Awad a capo dell’UNHCR per il Medio Oriente e il Nord Africa”.
Secondo i dati forniti dall’Onu dei 13,6 milioni, 7,2 sono gli sfollati interni in Siria, mentre 3,3 sono quelli che hanno lasciato il Paese. In Iraq, invece, sono 2 milioni i rifugiati interni e 190.000 persone hanno superato i confini nazionali cercando riparo in qualche altro stato. La maggior parte dei siriani sono andati in Libano, Giordania, Turchia e Iraq. Secondo Awad i paesi europei “dovrebbero aprire i loro confini e dividere i costi [rappresentati dalla presenza dei rifugiati]”.
Ma di fronte a questa crisi umanitaria di dimensioni enormi, c’è l’indifferenza della comunità internazionale. Secondo l’UNHCR mancano all’appello almeno 58,5 milioni di dollari (47 milioni di euro circa) di donazioni per aiutare 990.000 persone a superare l’inverno ormai prossimo. Denaro necessario a coprire i costi dei beni di prima necessità come vestiti caldi, cherosene, lenzuola. “Vorrei poter aiutare tutti, vorrei far stare tutti al caldo” – ha detto Awad ai giornalisti a Ginevra – “ma il mondo non sta rispondendo”.
Il direttore dell’UNHCR per il Medio Oriente e Africa ha bacchettato soprattutto Russia e Cina (entrambe nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) le quali sono ultime nella lista dei paesi donatori e che sono state, pertanto, invitate a contribuire maggiormente.
Con l’inverno alle porte e con le temperature che sono scese sotto i 16 gradi in alcune parti della Siria e dell’Iraq, l’UNHCR ha già investito 154 milioni di dollari per riparare dal freddo parte degli sfollati. Tuttavia, a causa della mancanza dei fondi, ha dovuto ridurre drasticamente il numero delle persone da aiutare. L’agenzia delle Nazioni Unite, infatti, aveva progettato di aiutare 1,4 milioni di persone in Siria e 600.000 in Iraq.
Ora, però, visto il calo di donazioni, potrà venire in soccorso solo di 620.000 persone in Siria e 240.000 in Iraq. Perciò, l’UNHCR ha dovuto fare “qualche scelta difficile su chi deve avere la priorità”. “Le necessità sono tante – aggiunge la portavoce dell’UNHCR Melissa Fleming – ma i fondi ricevuti non sono andati di pari passo con l’aumento degli sfollati”. Secondo Awad i primi ad essere aiutati saranno quelli che si trovano ad altitudini più alte dove fa più freddo. Poi ci sono i malati, gli anziani e i neonati. A proposito di questi ultimi, il capo dell’Agenzia Onu per i rifugiati per il Medio Oriente e il Nord Africa ha detto che lo scorso anno 11 di loro sono morti congelati e ha lanciato un inquietante allarme: “lo stesso potrebbe capitare quest’anno con altri bambini, con gli anziani e le persone deboli”

“I figli dell’Ebola” che non possono ritornare a casa...



Pubblichiamo oggi la testimonianza di Mohammed, uno dei bambini incontrati nel centro ad interim che gestiamo in Sierra Leone, per chi direttamente o indirettamente è stato colpito dall’Ebola. Intervenire contro l’Ebola significa infatti anche favorire il superamento dei pregiudizi sociali che la malattia genera, supportare i bambini rimasti orfani e facilitare il reintegro sociale di chi ha sconfitto l’Ebola.
Mohammed ha 11 anni ed ha perso suo padre e suo nonno a causa dell’Ebola. Sono stati accusati di aver portato la malattia nella comunità e per questo l’intera famiglia è stata mandata via e ha dovuto pagare una multa.

[All'inizio dell'epidemia il Presidente della Sierra Leone aveva concesso ai capi locali il potere di avere un proprio statuto per contenere la malattia nelle loro comunità. Nel villaggio di Mohammed hanno imposto multe a chi portava l’Ebola e inoltre chiunque avesse lasciato il villaggio per più di due giorni, non sarebbe potuto tornare.]
Mohammed si è ammalato due volte dopo la morte del padre, ma mai di Ebola. Lo hanno portato a uno dei centri ad interim di Save the Children per aiutarlo a recuperarsi dalla sua perdita. Ora vive con la madre e la nonna in una città più grande.

Mohammed così ha raccontato la sua storia

Eravamo a scuola quando il nostro insegnante ci ha parlato di una malattia chiamata Ebola e di persone che sarebbero venute qui con un farmaco. Ci ha detto che non avremmo dovuto accettarlo, perché era un veleno per uccidere le persone. Da allora tutti i genitori hanno smesso di mandare i figli a scuola.
Qualche giorno dopo, mio nonno si è ammalato, mio padre si è preso cura di lui, puliva tutto. La persona che ha portato l’Ebola nel villaggio è stata la moglie di mio nonno, anche chi si è preso cura di lei è morto. Dopo un paio di giorni dalla sepoltura della moglie, mio nonno ha iniziato a vomitare. Dopo la sua morte lo hanno rinchiuso in un sacco di plastica e ci hanno detto che quando bevi il medicinale, dopo la morte, ti buttano nel fiume.
Dopo altri due giorni mio padre si è ammalato iniziando ad avere forti dolori alla schiena. È stato difficile prendersi cura di lui, vomitava, aveva la diarrea. Dopo due giorni ci hanno detto che non potevamo vederlo. Lui non è andato in ospedale ed è morto a casa. Si è rifiutato di ricevere il trattamento a causa delle informazioni che aveva ricevuto in passato sul medicinale.
Ero con mia nonna quando mi hanno detto che mio padre era morto di Ebola. Quando lo abbiamo detto al capo del villaggio, hanno detto che tutta la famiglia se ne doveva andare. Ci hanno portati via e ci hanno detto che dovevamo pagare una multa.
Dopo la morte di mio padre sono andato da mia nonna. Ma dopo aver mangiato un po’ di Garri ho iniziato a vomitare e mi hanno portato a Kenema (centro di trattamento per l’ebola). Sono guarito e non era Ebola. Dopo pochi giorni, mi sono sentito male di nuovo e ho di nuovo iniziato a vomitare. Mi hanno portato a Kailahun (un centro di trattamento di Ebola di recente apertura). Ma anche questa volta i risultati erano negativi e mi hanno mandato in ospedale dove sono guarito dopo aver pagato Le 170.000 (moneta locale). Io sapevo che non era Ebola, perché non avevo sintomi come diarrea o eruzioni cutanee.
Dopo essere stato dimesso mi hanno portato all’ICC (centro di cura ad interim). Ero molto solo, piangevo e pensavo a mio padre. È per questo che mi hanno portato al centro, dove ho giocato e riso. Sono stato felice. Quando mi hanno detto che sarei dovuto andare lì, ho pianto perché pensavo sarebbe stato brutto, ma quando sono arrivato ho visto che si giocava insieme, che ci davano giocattoli e da mangiare 3 volte al giorno. Quando sono andato via mi hanno dato un pacchetto con riso, secchi e piatti.
Ora vivo con mia madre e non voglio tornare al mio villaggio, perché là è più probabile che le persone non parleranno con me.
Non posso tornare perché dicono che siamo figli dell’Ebola. Quando mio padre era vivo faceva tanto per me, mi incoraggiava. Ma ora lui è morto, non c’è nessuno a farlo allo stesso modo, neanche mia madre.
I miei amici non sono mai venuti, ero isolato, mi sentivo male. Ero felice quando giocavamo, loro non mi avrebbero più parlato. Ma ora qui giochiamo insieme, loro sanno che non ho l’Ebola, lo possono vedere.
Spero di diventare un medico. Avrò bisogno del sostegno dalla mia famiglia per istruirmi. Prima andavo a scuola, ma ora non lo faccio più, prima avevo un padre, ma ora non l’ho più. La malattia è ancora dietro l’angolo. Ho ancora paura di ammalarmi. L’Ebola è reale. Non puoi toccare nessuno mentre stai giocando. Se i tuoi genitori si ammalano, devi lasciarli”
(Save the children)

LE STERILIZZAZIONI IN INDIA...




Negli ultimi due anni in India sono stati eseguiti oltre 4,5 milioni di interventi chirurgici per limitare le nascite
Almeno  dieci donne sono morte e altre 64 sono state ricoverate dopo un’operazione di sterilizzazione in un ospedale di campo nello stato del Chhattisgarh, nell'India centrale, nell’ambito di una campagna portata avanti dal governo per limitare la crescita demografica del Paese.
Circa 80 donne – tra i 26 e i 40 anni - si erano sottoposte lo scorso sabato 8 novembre a un intervento chirurgico in laparoscopia per chiudere le tube, un tipo di sterilizzazione irreversibile largamente diffuso in India. Poche ore dopo, molte avevano lamentato forti dolori, febbre e nausea, ed erano state ricoverate d’urgenza.
Il governo del Chhattisgarh ha chiesto di aprire un’inchiesta sul caso, anche se i funzionari sanitari locali negano ogni responsabilità per la morte delle donne. Il ministro di stato Raman Singh ha sospeso quattro medici per le morti sospette e ha sporto denuncia formale verso il chirurgo che ha eseguito le oltre 80 sterilizzazioni in poche ore, scrive la Bbc.
Le campagne di sterilizzazione non sono una novità in India e fanno parte di un programma nazionale a lungo termine per controllare le nascite. Con 1,2 miliardi di abitanti, si prevede che già nel 2030 l’India avrà superato la Cina come nazione più popolosa al mondo.
Ma la crescita demografica indiana rischia di trasformarsi in un'arma a doppio taglio per il governo, dal momento che circa 800 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà e, seguendo il trend positivo, sarebbero destinati ad aumentare.
Negli ultimi due anni sono stati eseguiti oltre 4,5 milioni di interventi di sterilizzazione in India e le morti in seguito a operazioni chirurgiche mirate a limitare le nascite non sono una novità: tra il 2009 e il 2012, il governo ha pagato risarcimenti per la morte di oltre 560 personesecondo il corrispondente del Guardian, Jason Burke.
Anche se la crescita della popolazione è rallentata negli ultimi quarant’anni – dal 2,3 per cento negli anni Settanta a uno stabile 1,6 per cento nell'ultimo periodo – l’esplosione demografica è all’ordine del giorno nell’agenda politica indiana. In molte zone rurali, molto spesso i figli sono visti come braccia per lavorare piuttosto che come bocche da sfamare.
Anche se l’India è stata il primo Paese al mondo a introdurre politiche per la limitazione delle nascite, a differenza della Cina non ha adottato misure drastiche come la one child policy di Pechino, che stabilisce di obbligo per la maggior parte delle famiglie ad avere un solo figlio.
Negli anni Settanta, durante i ventidue mesi di emergenza dichiarata dall’allora primo ministro Indira Gandhi, e la conseguente sospensione dei diritti civili, milioni di uomini e donne furono sottoposti a sterilizzazione forzata in un tentativo di controllo delle nascite.
Da allora, la politica demografica indiana, si è concentrata sul combinare coercizione e incentivi per la sterilizzazione, come ricorda Soutik Biwas della BbcAlle donne dello stato del Chhattisgarh erano state offerte 1400 rupie (meno di 20 euro) per la sterilizzazione.
La pianificazione familiare, in India, si è da sempre focalizzata unicamente sulle donne: uno studio rivela che il 37 per cento delle donne sposate si sottopone alla sterilizzazione dopo la nascita dell’ultimo figlio desiderato.
In una società patriarcale dominata dagli uomini come quella indiana, la vasectomia (o sterilizzazione maschile) non è socialmente accettata e metodi contraccettivi alternativi sono ancora poco diffusi.
Anche se le autorità dichiarano che la sterilizzazione è volontaria, diverse Ong e attivisti sottolineano come gli incentivi, in zone marginalizzate e impoverite, possano essere uno strumento di coercizione, laddove i mariti costringono le donne a sterilizzarsi in cambio di soldi o elettrodomestici.
Tre anni fa ad esempio, nello stato del Rajasthan, una campagna governativa incoraggiava le famiglie a sterilizzarsi in cambio della più piccola automobile del colosso industriale indiano, la Tata Nano. Vicenda che ha portato al centro del dibattito nazionale le questioni etiche legate alla promozione delle sterilizzazioni da parte del governo.
(The Post Internazionale)

Isis, è donna e israeliana: Gill, la prima straniera a combattere con i curdi...





Ex soldatessa dell'Israel Defense Force, di origini canadesi, si è unita ai guerriglieri del nord della Siria. Ma è mistero sul suo passato: secondo i quotidiani israeliani, avrebbe trascorso tre anni nelle carceri degli Stati Uniti per truffa e poi avrebbe tentato di entrare nel Mossad

Si chiama Gill Rosenberg, 31 anni, canadese con passaporto israeliano, ed è la prima donna straniera ad arruolarsi alle milizie curde che combattono l’Isis in Siria. Gill, da quanto rivela una fonte curda, si troverebbe nel nord-est siriano, affiliata tra le soldatesse dell’YPJ, il principale nucleo di guerriglieri curdi presenti nel Paese. La Rosenberg, canadese di White Rock con un passato nell’aviazione di Israele, è partita dalla sua casa diTel Aviv il 2 novembre, si è fermata ad Amman, per poi volare alla volta di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Da lì, la Siria. Ma è fitto però il mistero attorno alla figura della “guerrigliera”, dopo che i giornali israeliani hanno rivelato il suopassato burrascoso, con tre anni trascorsi nelle carceri degli Stati Uniti.
In un’intervista a “Israel Radio” di lunedì, Rosenberg ha detto di trovarsi in Iraq, dove si stava addestrando con i combattenti dell’YPG, con cui si era messa in contatto su internet: “Sono nostri fratelli, brave persone, amano la vita come noi” – ha spiegato, prima di rivelare che era pronta a partire per la Siria. Malgrado non ci sia alcuna ufficialità che la voce (con chiaro accento canadese) dell’intervistata fosse la sua, una fonte interna alla radio lo assicura. I movimenti della Rosenberg sarebbero continuamente aggiornati nel suo profilo Facebook, ma anche qui non c’è alcuna sicurezza che l’account sia autentico. Da quanto si legge, la presunta Gill si  mostra determinata: “Nell’esercito israeliano gridiamo ‘Aharai!’. Mostriamo all’Isis cosa significa!”. Una foto di sabato 9 novembre la ritrae fra le montagne pressoNisibis, in Turchia, al confine siriano.
Yahel Ben-Oved, la sua avvocatessa israeliana, ha rivelato di non avere notizie sul suo arruolamento con i curdi, malgrado si siano sentite di recente. Daniel Lieber, suo vecchio amico assicura: “È sempre stata interessata alle questioni politiche e sempre filo-israeliana. È incredibilmente forte, nella mente e nel corpo”. Adiv Sterman, del quotidiano “Times of Israel”, parla invece del suo presunto passato burrascoso, descrivendola, nel titolo, come una “gifter”, una truffatrice.
La vicenda risalirebbe al 2009, quando con un’operazione congiunta, Fbi e polizia di Tel Aviv avrebbero arrestato la Rosenberg insieme ad altre undici persone, tutte con passaporto israeliano, che hanno finto di aver messo in piedi una lotteria a premi, riuscendo a truffare diverse persone, per lo più anziani, tutti cittadini americani. La 31enne e i complici avrebbero frodato fino a 25 milioni di dollari. Gill, secondo la tv israeliana “NRG news” avrebbe provato invano, dopo l’arresto, a entrare nel Mossad, il servizio segreto di Israele. Fallito questo tentativo, sarebbe quindi stata estradata negli Stati Uniti, condannata a 4 anni di reclusione, ridotti a 3 dopo il patteggiamento. “Times of Israel” scrive che a rivelarlo è uno dei suoi legali che ha citato anche le carte processuali.
Ma il quotidiano è anche uno dei più vicini al governo di Benjamin Netanyahu, che ha recentemente messo su un giro di vite su quanti vadano a combattere in Siria con lo Stato Islamico o si arruolino con i ribelli al regime di Bashar Assad. Israele vieta espressamente ai suoi cittadini di entrare in territori considerati“nemici”. In sostanza, la Rosberg, qualora tornasse in suolo israeliano, rischierebbe nuovamente l’arresto. Inoltre, ancheil Canada ha simili preoccupazioni per i suoi cittadini che si trovano in Siria. Entrambi i paesi hanno comunicato di seguire attentamente il caso di Gill.
La situazione militare tra le due forze armate, nel villaggio diKobani, nel Kurdistan siriano al confine con la Turchia, è in stallo da settimane. Nonostante abbia perso circa 600 combattenti, l’Isis controlla ancora il 40 % di quel territorio. I guerriglieri curdi hanno recentemente avuto l’aiuto di circa 150 peshmerga, l’esercito curdo iracheno, che hanno portato nella zona armi e viveri.
(Il Fatto Mondo)

Siria: cessate-il-fuoco a Damasco permette ingresso aiuti...





(Agenzie) La tregua raggiunta tra gli ufficiali pro-governativi e i ribelli locali ha finalmente permesso l’ingresso in un quartiere nel Sud nella capitale siriana Damasco degli aiuti umanitari necessari.
L’accordo di cessate-il-fuoco, che secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani risale allo scorso agosto, contempla inoltre il rilascio di prigionieri detenuti dal governo Assad e conferisce all’Esercito Siriano Libero la gestione temporanea della zona.
(ArabPress)

Isis, Ong: Oltre 850 morti in raid su Siria Secondo l'Ondus tra le vittime degli attacchi della coalizione ci sono almeno 50 civili....





Ancora vittime nella lotta all'Isis.
Oltre 850 persone sono state uccise nei raid aerei della Coalizione internazionale a guida Usa sulle postazioni dell'Isis in Siria dal loro inizio, il 23 settembre.
OLTRE 50 CIVILI. A riferirlo l'ong Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus).
Tra gli uccisi, 746 sono jihadisti dell'Isis, ma anche 50 civili, tra i quali otto bambini.
Il numero di morti che l'ong dice di essere stata in grado di accertare è di 865.
FORSE OLTRE 740. L'Ondus ritiene tuttavia che il numero dei caduti tra i miliziani dell'Isis possa essere superiore alla cifra di 746, vista «la segretezza mantenuta dallo Stato islamico sulle sue perdite e la difficoltà di accesso a molte aree e villaggi colpiti».
Gli uccisi nelle file del Fronte al Nusra, la branca siriana di Al Qaida, sono invece almeno 68.
BOMBARDAMENTI SU RAFFINERIE. Molti dei civili sono morti in bombardamenti che hanno preso di mira giacimenti petroliferi e raffinerie nelle province di Al Hasaka e Deyr az Zor, oltre che Raqqa e località nelle province di Aleppo e Idlib.
FORTE CONDANNA ONDUS. L'Ondus ha espresso la sua «forte condanna» per l'uccisione di civili e fa appello perché essi siano risparmiati «da tutte le parti» nei bombardamenti e nei combattimenti.

(Lettera 43)

CHIUSI IN GABBIA A un anno dal tifone che ha devastato le Filippine, diversi malati mentali vivono isolati dalla società senza alcun supporto...





di Jessica Cimino

Becire ha 34 anni e vive in un villaggio della città di San Remigio, nel sud delle Filippine.
Fino a poco tempo fa, però, non ricordava nulla delle lunghe spiagge assolate e delle foreste circostanti, perché per sedici anni ha vissuto all’interno di una gabbia costruita con massicci tronchi di bambù, dotata di fessure appena sufficienti per far passare la sua razione di cibo quotidiana.
È stato bloccato con catene e imprigionato in uno spazio angusto, non perché fosse l’autore di un crimine, ma perché prigioniero della sua stessa malattia: un grave disturbo mentale che ha costretto la famiglia a costruirgli questa cella improvvisata a pochi metri dalla loro abitazione, al fine di impedirgli di far del male a se stesso e agli altri membri della comunità.
A un anno dal primo anniversario che ha commemorato le vittime del tifone Haiyan, abbattutosi sull’arcipelago filippino l’8 novembre 2013 causando più di 6mila morti e 4 milioni di sfollati (di cui 100mila residenti in aree costiere dichiarate ufficialmente come zone a rischio), le ricerche dei superstiti hanno fatto emergere la storia di Joe e di altre sei persone nei dintorni della regione filippina di Cebu.
La scoperta delle condizioni disumane di Joe è stata del tutto casuale: è quanto sostiene John Paul Maunes, co-fondatore del Gualandi Volunteer Service Programme (Gvsp), un’organizzazione locale impegnata nell'assistenza nei giorni successivi al tifone. “Quando abbiamo trovato Joe ridotto in quello stato, siamo rimasti scioccati”, racconta.
La decisione delle famiglie di confinare i propri figli nelle gabbie non nasce da un atto di crudeltà, bensì di disperazione, vista la mancanza dei mezzi economici necessari per rivolgersi a centri specializzati nella cura delle malattie mentali.
Lo confermano le parole della madre di Joe: “Non so perché mio figlio si trovasse in quello stato. Piangevo ogni giorno per lui, era come se il mio cuore stesse andando a fuoco. Non avevo i soldi per pagargli le cure appropriate: ho dovuto incatenarlo. Il capo villaggio mi disse che se lo avessi liberato, e lui avesse ucciso qualcuno, la responsabilità sarebbe stata mia e sarei finita in carcere”.
Il disinteresse delle autorità competenti a livello centrale, insieme a un diffuso senso di timore e diffidenza nei confronti dei malati mentali, fa sì che la loro assistenza venga spesso lasciata nelle sole mani degli enti benefici locali.
Pur in assenza di risorse adeguate, l’organizzazione di John Maunes è riuscita a compiere un piccolo miracolo: “Con Joe siamo intervenuti fornendo assistenza medica e psicologica per lui e la famiglia. Dopo solo un mese, era in grado di muoversi in autonomia, e compiere i gesti più semplici, come lavarsi o cucinare. Nessuno poteva crederci: chi lo temeva, ha capito che dietro alla malattia c'era pur sempre un essere umano”, racconta.
La devastazione provocata dal tifone Haiyan ha spinto le organizzazioni umanitarie ad accorrere nelle zone colpite, e di venire a conoscenza di vicende come quella di Joe Becire, fino ad allora tenute all’oscuro. Ma i danni subìti dalla popolazione filippina in termini di abitazioni, posti di lavoro e di vite andate perse sono ancora schiaccianti, e al momento impediscono un intervento mirato a favore dei pazienti affetti da disturbi mentali.
A un anno dalla tragedia che ha colpito il Paese, continuano le polemiche di chi ritiene che gli interventi effettuati a seguito del tifone non siano stati adeguati. In particolare, il sindaco e gli abitanti di Tacloban, la città maggiormente colpita dal tifone, puntano il dito contro Corazòn Soliman, capo del Department for Social Welfare and Development (Dswd).
Secondo la popolazione di Tacloban, gli aiuti stanziati dal governo filippino non sarebbero stati equamente distribuiti, ma limitati alle sole aree politicamente affini al partito del presidente Benigno Aquino III, in carica dal 2010.
Ad aggravare la posizione di Corazòn Soliman ci sono poi le rivelazioni scaturite dall’Indipendent Commission on Audit Report dello scorso settembre. Dalla documentazione contenuta nel report risulta che l’ufficio della Soliman avrebbe causato la perdita di pacchi alimentari per un valore di circa 1,25 milioni di euro a causa di uno stoccaggio improprio, più altri 12,5 milioni di euro in contanti destinati alle vittime, e confluiti invece in conti bancari del governo.
La Soliman ha ammesso l’esistenza di “differenze politiche” che avrebbero reso difficile la collaborazione con il sindaco, negando tuttavia ogni responsabilità in merito alla perdita dei pacchi alimentari e all’allocazione dei fondi, assicurando che “i responsabili dell’incidente saranno chiamati a rispondere”. 
Al di là delle divergenze politiche a livello nazionale che possono aver compromesso parte degli aiuti, le Filippine hanno potuto contare sull’assistenza costante delle Ong: grazie alla Philippine Red Cross (PCR), ad esempio, è stato possibile ricostruire più di 6mila case; attraverso un piano triennale pari a 290 milioni di euro inoltre sarà possibile fornire un supporto finanziario alle famiglie situate nelle zone più colpite, tra cui le località di Leyte, Cebu, Palawan e Panay.
Un’altra organizzazione chiamata Philippine Communitere sta contribuendo in modo innovativo al recupero delle aree distrutte dal tifone Haiyan, mettendo a disposizione un Centro di Risorse Logistico (The Makerspace), che offre alla popolazione locale tutto il materiale e la manodopera necessaria per ricostruire scuole e abitazioni.
Pagsisikap è una parola filippina che può tradursi come solidarietà o sforzo comune: è ciò che sta dando al popolo filippino la forza di ricostruire comunità più sostenibili, e di superare uno dei più grandi disastri che il Paese abbia mai dovuto affrontare.
(THe Post Internazionale)


Cina: perché l'apertura del partito sul secondogenito non funziona e quali sono le sue conseguenze...





Di Luca Lampugnani

Se nel 1979 il problema era l'eccessivo boom demografico cinese, 35 anni dopo - e in previsione del futuro - la tendenza è assolutamente invertita. Stando ad alcune stime, infatti, nonostante per il momento continui a crescere, la popolazione del Dragone entro un decennio potrebbe sensibilmente diminuire, conoscendo un vero e proprio tracollo nei prossimi 100 anni passando dagli attuali 1,3 miliardi ad 800 milioni. Uno scenario che si rivelerebbe più che plausibile, ovviamente, se in Cina si mantenesse costante l'attuale rapporto tra tasso di natalità e di mortalità.
In tal senso, all'incirca un anno fa, al termine del terzo Plenum il Partito Comunista cinese aveva deciso di superare (o meglio alleggerire) la controversa politica del figlio unico. Introdotta nel 1979 dall'allora presidente Deng Xiao Ping e resa operativa su tutto il territorio nazionale, questa impediva categoricamente alle coppie cinesi - scatenando nel corso degli anni numerosi risvolti sociali disastrosi, a partire dagli aborti obbligati - di generare secondogeniti, in particolar modo se abitavano nelle aree urbane della Cina. Con la modifica del novembre 2013, Pechino ha sostanzialmente aperto alla possibilità del secondo figlio, lasciando comunque alcuni paletti: coloro che vogliono affrontare una seconda gravidanza, infatti, sono assolutamente tenuti a dimostrare di essere a loro volta figli unici, requisito che può essere soddisfatto anche solo da uno dei due genitori pretendenti.
Tuttavia, ormai ad un anno da un passo che è stato giudicato storico, gli effetti dell'allentamento sulla famigerata politica del figlio unico sono pressoché invisibili. Come confermato la scorsa settimana da un alto funzionario della sanità nazionale e membro della commissione cinese per la pianificazione familiare, Zhao Yanpei, delle 11 milioni di coppie stimate che potrebbero beneficiare dell'apertura, solo un 6% ha effettivamente presentato domanda per ottenere il via libera al secondo figlio. Precisamente, nonostante fossero attese oltre un milione di richieste solo nel corso del primo anno, fino a questo momento il contatore si è fermato a 700 mila. Si tratta di un dato "davvero molto al di sotto delle nostre aspettative", ha commentato Yanpei.
"Perché non si sta verificando l'atteso baby-boom?", titolava l'agenzia di stampa cinese Xinhua lo scorso 10 novembre. Le risposte più gettonate a questa annosa domanda e raccolte dai giornalisti sguinzagliati in lungo e in largo per tutta la Cina dalla Xinhua stessa erano tre: paura, indecisione, volontà. Nel primo caso, gli intervistati esternavano tutte le loro preoccupazioni in merito al mantenimento dell'eventuale secondo figlio. Nel secondo, descrivevano la loro titubanza per i più disparati motivi, dall'età alle possibilità economiche. Nel terzo, ed ultimo, dicevano chiaramente di non essere interessati ad un secondogenito, di essere felici e contenti con un unico figlio. Così come fatto dalla Xinhua, nelle ultime settimane articoli simili hanno occupato pagine e pagine di numerosi organi di informazione del Dragone, e il risultato è stato pressoché lo stesso: "avere un secondo bambino non è così semplice come l'aggiunta di un altro paio di bacchette a tavola".
Insomma, prima responsabile del mancato riscontro nel pratico della 'liberalizzazione' teorica della politica del figlio unico sembra essere l'economia di tutti i giorni. Un eventuale secondo figlio deve essere sfamato, istruito, curato e cresciuto. E laddove gli stipendi della classe media (soprattutto nel privato) scricchiolano e rendono difficile il mantenimento di un solo figlio, la prospettiva di un secondogenito diventa utopia.
Ancora, non è da sottovalutare la questione burocratica. Riuscire ad ottenere il permesso per una seconda gravidanza non è infatti cosa facile, e a fronte di spese e fatiche è più che probabile che al termine dell'iter i desiderosi genitori vengano stroncati con un sonoro rifiuto. In tal senso, emblematico è un risvolto dei numeri snocciolati la scorsa settimana dal già citato Zhao Yanpei: delle 700 mila coppie che hanno fatto domanda, 80 mila sono state rispedite al mittente. A questo dato, ancora, va aggiunto che il governo non si è premurato di riferire quanti secondogeniti siano effettivamente nati ai genitori autorizzati, anche se una dimensione parziale della manovra può essere data da Chongqing, città con una popolazione di oltre 33 milioni di persone. Qui, secondo alcuni report, dallo scorso novembre ad oggi sono nati 5 mila e 15 bambini.
Ovviamente, nel caso la tendenza non cambi nei prossimi anni (e c'è tutto lo spazio di manovra utile affinché capiti, basti pensare che gli effetti in contrasto al boom demografico portati dal controllo delle nascite si sono cominciati a vedere negli anni'90), le conseguenze potrebbero essere anche piuttosto preoccupanti. Innanzitutto, la Cina conoscerebbe un sempre maggior invecchiamento della popolazione e una diminuzione nei ricambi generazionali. In secondo luogo, si manterrebbe costante la disparità demografica tra uomini e donne, i primi in un numero decisamente maggiore rispetto alle seconde con particolare responsabilità della politica del figlio unico. Ancora, la forza lavoro continuerebbe a crollare anno dopo anno, come si è già verificato per la prima volta nel 2012 e poi di nuovo nel 2013. Conseguenze, queste, strettamente legate l'una all'altra, e che rischiano alla lunga di intaccare la proverbiale crescita economica senza sosta del Dragone.


(International Business Times)

Ucraina, quella guerra dimenticata che la Russia vuole far esplodere...





Mentre l'Internet si diverte a vedere il presidente russo Vladimir Putin che appoggia una coperta sulle spalle della first lady cinese, e mentre i giornali si occupano, al massimo, dei legami sempre più stretti fra Russia e Cina circa il gas, un'altra situazione, più vicina ai confini europei, rischia di ritornare esplosiva come e forse peggio di qualche mese fa: la mai sopita crisi fra Ucraina e Russia.

Anche se lontano dai titoli e dall'attenzione dei media, il cessate il fuoco raggiunto a settembre sembra aver fatto la sua storia: questa volta non è solo il governo di Kiev a segnalare che la Russia si sta preparando ad un'invasione su larga scala, anche l'Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione in Europa (OSCE) rende noti preoccupanti movimenti di truppe al confine.
L'ultima notizia riguarda un convoglio di ben 43 camion militari completi di cinque pezzi di artiglieria e cinque sistemi lanciarazzi in entrata nelle regioni orientali dell'Ucraina: secondo l'OSCE, che è presente nella zona su accordo delle parti, questi camion non avevano segni distintivi, come a rievocare i fatti che mesi fa portarono all'annessione della Crimea alla Russia. Anche all'epoca militari armati privi di segni di identificazione occuparono le strutture fondamentali della penisola sul Mar Nero: allora come oggi, almeno per Kiev, si tratta di militari russi introdottisi in Ucraina. Putin ha sempre negato ogni coinvolgimento militare a favore dei separatisti, ribadendo sempre che i suoi convogli sono "umanitari", ma non ha mai spiegato come abbiano fatto decine di soldati russi a morire in Ucraina orientale.
Questa volta, però, a differenza della crisi crimeana, il governo di Kiev è stabile e probabilmente pronto ad affrontare una guerra a tutto campo, anche perché le regioni orientali rappresenterebbero una perdita ben più importante della Crimea: a tal riguardo, il presidente ucraino Petro Poroshenko si è assicurato il supporto dell'amministrazione Obama, la quale, attraverso il vicepresidente Joe Biden, ha promesso di aumentare i "costi" (economici) per la Russia in caso di escalation del conflitto.
Mosca è stata effettivamente colpita dalle sanzioni occidentali: la crescita prevista per il futuro prossimo è stata azzerata, il rublo sta collassando sui mercati valutari, ma ciò non ha fermato il supporto sempre meno nascosto di Putin ai separatisti. Il Cremlino, infatti, si è ben preparato all'evenienza per tempo, accumulando importanti riserve valutarie, in grado di coprire diversi mesi di "embargo", e nel mentre ha cominciato a spostare il baricentro dei propri interessi economici dall'Ovest all'Est, laddove la domanda di prodotti energetici è, peraltro, ancora in aumento.
Con le spalle coperte nel breve periodo, Putin può far proseguire i suoi piani volti a creare una zona cuscinetto fra Ucraina (ed Europa) e Russia, creando Stati vassalli non riconosciuti internazionalmente, come ha già fatto con la Transnistria in Moldavia o con Abkhazia e Ossezia del Sud in Georgia.
Putin ha tutto l'interesse ad esacerbare il conflitto, cosa che peraltro sta già avvenendo da diversi giorni: più l'Ucraina resta invischiata nel conflitto e viene danneggiata sia nelle infrastrutture che nell'economia, più sarà difficile che Kiev (e relativo bagaglio di problemi) venga accettata all'interno o almeno nei pressi dell'Unione Europea, che già ha fin troppe zavorre al proprio interno e problemi economici squisitamente domestici. L'economia ucraina è già in una situazione critica, sull'orlo della bancarotta, con una moneta in caduta libera e sostenuta solo da aiuti internazionali.
Il timore degli analisti occidentali è che la Russia si stia preparando a sostenere una nuova offensiva come quella che ha rovesciato le sorti del conflitto lo scorso agosto: l'obiettivo, stavolta, potrebbe essere la conquista della seconda città dell'Oblast di Donetsk, ovvero Mariupol, strategica città sul mare d'Azov.
Qui l'attacco ai soldati ucraini è già iniziato nei giorni scorsi, riprendendo quanto stava avvenendo a settembre, prima del cessate il fuoco. Nel mentre l'Ucraina ha provveduto a rafforzare le difese della città, sicché una battaglia rischia di essere estremamente sanguinosa: la presa di Mariupol permetterebbe alla Russia di prendere il controllo del mare d'Azov, creando così un corridoio sicuro verso la Crimea, evitando così che la penisola collassi, essendo praticamente tagliata fuori dai tradizionali canali di rifornimento.
Dopo la conquista di Mariupol l'appetito di Putin potrebbe essere temporaneamente sazio e favorire un nuovo cessate il fuoco (magari con annesso pagamento a Gazprom da parte di Kiev): nel mentre le forze in campo potrebbero rischierarsi e i separatisti potrebbero tentare di spostare la guerra verso nord, nell'Oblast di Luhansk, oppure (ma meno probabilmente) dirigersi verso Est per prendere Odessa e così creare un corridoio che collegherebbe la Transnistria alla Crimea fino a Mosca.
Il conflitto sembra quindi ben pronto ad esplodere di nuovo, scatenando nuove tensioni alle porte di un'Europa già in crisi all'interno dei propri confini. 4000 persone sono morte dalla scorsa primavera nel corso della guerra e un altro milione ha dovuto abbandonare le proprie case dallo scorso febbraio, quando la caduta del presidente Viktor Yanukovich, sostenuto dalla Russia, fece definitivamente precipitare la situazione.

(International Busuness Times)

Brucia il Medio Oriente: date alle fiamme una moschea e una sinagoga...



I coloni israeliani hanno dato fuoco ad una moschea a Ramallah in Cisgiordania: gli estremisti palestinesi hanno risposto attaccando una moschea.



Sono stati registrati nuovi atti di vandalismo contro luoghi religiosi in Israele. I primi ad appiccare le fiamme sono stati alcuni coloni israeliani che nella notte hanno bruciato una moschea vicino Ramallah. La risposta degli estremisti palestinesi non si è fatta attendere e, subito dopo, hanno attaccato una una sinagoga a Gerusalemme est.

Fonti della sicurezza palestinese hanno riferito che "i coloni hanno dato fuoco al primo e al secondo piano" della moschea nel villaggio di Al-Mughayir, nei pressi dell'insediamento di Shilo, in un attacco che ha ricordato, per il modo in cui è stato condotto, uno analogo avvenuto nello stesso villaggio nel 2012. Anche la polizia israeliana ha confermato quello che è successo nella notte vicino Ramallah. 

L'attacco alla sinagoga invece è avvenuto attraverso il lancio di una bottiglia incendiaria contro un'antica sinagoga a Shfaram, villaggio della Galilea a maggioranza araba. Il luogo sacro, costruito 250 anni fa, era utilizzato nella prima metà del XX secolo dalla piccola comunità ebrea che viveva nella zona e successivamente e' diventata un simbolo di convivenza quando fu dipinta da giovani arabi nell'ambito di una iniziativa congiunta contro l'odio e l'intolleranza. Secondo i primi testimoni, l'attacco ha causato alcuni lievi danni alla facciata del monumento.

(Globalist)

martedì 11 novembre 2014

Marocco. Minorenne stuprata e sfigurata dal marito...



Una minorenne marocchina vuole il divorzio, dopo essere stata costretta a sposare il suo stupratore, ma il marito la sfigura



Una minorenne marocchina vuole il divorzio, dopo essere stata costretta a sposare il suo stupratore, ma il marito la sfigura a colpi di rasoio. La notizia è stata resa nota oggi dai media del Marocco.
Khaoula è il nome della ragazzina che ha appena 17 anni. Sabato a Marrakech é stata aggredita dall'uomo che mentre la colpiva con il rasoio gridava "nessuno ti sposerà dopo di me". Fonti locali riferiscono che il personale medico ha dovuto suturarle una cinquantina di tagli al viso "con 40 punti". L'Amdh (Associazione marocchina per i diritti umani) ha assicurato il suo aiuto alla ragazza perché possa ottenere giustizia.
Il Parlamento lo scorso inverno aveva modificato l'articolo 475 del codice penale, che permetteva agli stupratori di sfuggire alla giustizia se sposavano la loro vittima.

(Globalist)

Mo, Barghuti incita alla terza intifada. Abu Mazen accusa Hamas...



Giovane palestinese ucciso in scontri a Nablus. Forte tensione in Cisgiordania dopo gli attentati in cui sono rimasti uccisi un soldato e una ragazza israeliani




In una lettera dal carcere israeliano dove sconta l'ergastolo, il dirigente di al-Fatah Marwan Barghuti afferma che ''la resistenza armata contro l' occupazione è l' eredità di Yasser Arafat''. Barghuti polemizza con i dirigenti dell'Anp: "cessino la cooperazione di sicurezza con Israele perchè rafforza l' occupazione israeliana''
Giovane palestinese ucciso a Nablus Un giovane palestinese, Mohammed Mohammed Imad Jawabra 21 anni, è morto per le ferite dopo essere stato colpito dall'esercito israeliano in scontri nei pressi nel campo profughi di Aroub a nord di Hebron. Lo scrive l'agenzia Maan. Il ragazzo - ha spiegato la Maan - e' stato colpito al petto
Forte tensione in Cisgiordania, dopo che ieri un membro della Jihad islamica ha pugnalato a morte una donna ebrea nella zona di Betlemme. Automezzi israeliani sono stati colpiti da saassaiole e in un caso un automobilista ha sparato in aria per mettersi in salvo. Nella zona di Nablus una trentina di veicoli palestinesi sono stati danneggiati, presumibilmente da coloni della zona. Centinaia di militari israeliani della Brigata Golani sono stati dislocati lungo le principali arterie per garantire l'ordine. Nel frattempo si sono svolti i funerali di Dalia Lemkus, la donna di 26 anni assassinata ieri. Presente il presidente della Knesset Yoel Edelstein. La Jihad islamica ha ieri rivendicato la paternità dell'attentato e ha fatto appello ai suoi militanti a condurre nuovi attacchi contro gli israeliani. Messaggi di tono analogo sono giunti anche da Hamas.
Mogherini, 'Molto preoccupata per escalation violenza'
"Sono molto triste e preoccupata per l'escalation della violenza in Medio Oriente". Lo ha detto Federica Mogherini a Berlino, commentando gli sviluppi della situazione mediorientale e sottolineando l'importanza di una soluzione politica.
(ANSA)

REGINA E CHRISTOPHER, LA COPPIA CHE HA SALVATO 3.000 MIGRANTI: "NON RESTIAMO INDIFFERENTI"...





ROMA - Hanno salvato dalla morte tremila persone che sarebbero quasi certamente affogate: ma anche la Migrant offshore aid station (MOAS), prima missione finanziata da privati in soccorso ai disperati che si avventurano sul Mediterraneo, chiude i battenti, assieme a Mare Nostrum col quale collaborava strettamente. "Non ci sono più soldi"
Non ci sono più soldi: Christopher Catrambone, l'imprenditore italo-americano residente a Malta il quale, assieme alla moglie Regina e alla figlia Maria Luisa, aveva largamente finanziato l'operazione con denaro proprio, spera di poter rimettere in mare la nave Phoenix I° il prossimo anno e si augura che la missione Tritondell'Unione Europea, che prenderà il posto di quella della Marina militare italiana, senza però poter operare in acque internazionali, metta al primo posto il salvataggio di vite umane. "Più rifugiati oggi che durante l'ultima guerra mondiale" .Il supporto di privati e Ong come Medical Bridges non è sufficiente a garantire la prosecuzione dell'operazione, che i Catrambone sperano ora di sostenere attraverso la raccolta di fondi tra la gente; oggi, sottolinea Christopher, ci sono più rifugiati che dopo la seconda guerra mondiale e di salvataggi in mare c'è bisogno più che mai. Sul sito del Moas è possibile fare donazioni all'organizzazione. "Abbiamo contribuito a salvare tremila uomini, donne e bambini - ha raccontato l'imprenditore alla BBC - mi ha sconvolto vedere in quali condizioni disumane i migranti siano stipati sui barconi. Alcuni sono rinchiusi sottocoperta col rischio di soffocare; solo quando lo vedi con i tuoi occhi ti rendi conto di quanto sia spaventoso quel viaggio". "Scappano in più fortunati". "E' difficile rendersi conto di una disperazione talmente grande da mettere a repentaglio la propria vita e quella della propria famiglia; ma in un certo senso quelli che riescono a mettersi in viaggio sono i più fortunati, quelli che se lo possono permettere, e molti sono professionisti, insegnanti, ingegneri, avvocati".

(Leggo)

Elezioni Polonia, la nuova ascesa dell'estrema destra Violenze contro gli omosex. Ebrei perseguitati. E stranieri in fuga. A Varsavia la crisi rilancia i partiti xenofobi. Che puntano a vincere il 16 novembre...








da Varsavia

Un cartellone elettorale di Hanna Gronkiewicz-Waltz, attuale sindaco di Varsavia ed esponente del partito di governo Piattaforma civica (Po), campeggia su Aleja Waszyngtona. Il volto del primo cittadino è deturpato da una barbetta a punta e da due riccioli laterali da ebreo chassidico aggiunti a spray nero mentre il logo del partito è stato trasformato in una stella di David.
Ci troviamo nell'ex quartiere operaio a poche centinaia di metri dallo stadio nazionale costruito in occasione dell'Europeo di calcio del 2012.
PAESE XENOFOBO. «La xenofobia in Polonia non appartiene solo alla generazione cresciuta prima della Seconda Guerra mondiale», ricorda conLettera43.it Rafał Pankowski sociologo del Collegium Civitas di Varsavia, «le ideologie di estrema destra sono state trasmesse ai giovani di oggi in molti modi, per esempio attraverso l'hip hop nazionalista, internet o il tifo calcistico organizzato».
RABBIA DEGLI ULTIMI. Per il sociologo dell'Università di Varsavia Michał Bilewicz, inoltre, l'antisemitismo in Polonia è stabile, ma «più pronunciato fra persone la cui situazione è peggiorata negli ultimi anni, perché lasciate indietro dal mercato del lavoro e dalla ripresa economica».
SI VOTA IL 16 NOVEMBRE. Domenica 16 novembre, la capitale e tutte le maggiori città polacche sono chiamate alle urne per le elezioni locali.
Il timore è che i sostenitori dell'estrema destra nazionalista (guarda le foto) non si limitino ai graffiti antisemiti, ma votino partiti affini alla loro ideologia. Ed è soprattutto fra inoccupati e indigenti di tre generazioni - il tasso di disoccupazione si aggira intorno al 10% - che si trovano molti degli elettori dell'estrema destra polacca. 

La destra vuol conquistare nazionalisti, ultracattolici e antieuropeisti

Quella che si rivolge a un elettorato nazionalista, ultracattolico e antieuropeista è una destra variegata.
«L'Europa è vista come la responsabile dell'apertura a lesbiche e omosessuali e quindi dell'attacco alla cosiddetta famiglia tradizionale», sottolinea il politologo e giornalista diKrytyka Polityczna, Michał Sutowski.
Non a caso, lesbiche e omosessuali sono spesso bersaglio di violenze in un Paese in cui appena il 2% della popolazione è straniera e la comunità ebraica è ridotta a poche migliaia di individui.
ATTACCHI A OMOSEX E ROM. Come afferma Bilewicz, «oggi i messaggi di odio nei confronti di omosessuali, lesbiche e rom sono accettabili per l'opinione pubblica». E Sutowski aggiunge che mentre negli Anni 90 nessun partito rivendicava ufficialmente posizioni omofobe «l'estrema destra polacca ha ora inserito l'omofobia nella propria agenda politica».
Agata Chaber, presidente di Campagna contro l'omofobia (Kph) fondata nel 2001 e principale associazione polacca per i diritti Lgbt conferma: «Con la crescita di consensi registrata da partiti e movimenti nazionalisti spesso vicini all'ideologia neonazista, gli individui Lgbt sono divenuti maggiormente soggetti a violenza fisica o verbale nelle strade».
AGGRESSIONI DEI NEONAZI. L'Ong Nigdy Więcej (Mai più), fondata nel 1996, ha documentato circa 500 episodi di aggressioni e violenze perpetrati da estremisti di destra in Polonia fra gennaio 2013 e marzo 2014.
Pankowski, direttore di Nigdy Więcej, precisa che questi numeri sono solo la punta dell'iceberg di un fenomeno assai più esteso: «Molti di questi crimini non vengono denunciati, per paura o mancata conoscenza dei propri diritti. E spesso la polizia e i tribunali polacchi non considerano attacchi omofobi o razzisti come un fenomeno distinto dal comune teppismo».
TORNA L'ANTISEMITISMO. In base ai dati raccolti da Nigdy Więcej, il direttore evidenzia una «crescita di aggressioni e violenze da parte dei movimenti di estrema destra negli ultimi due anni».
Gli attacchi sono rivolti anche a «insegnanti, professori, antifascisti e attivisti di sinistra tutti percepiti come vicini a ebrei o omosessuali», ricorda Pankowski che cita anche profanazioni di cimiteri, sinagoghe e monumenti commemorativi della Shoah.

Tra i partiti estremisti il Nop è alleato di Forza nuova e Alba dorata

Fra le formazioni di estrema destra più attive in Polonia, ma fuori dal parlamento di Varsavia, vi sono il Campo radicale nazionalista (Onr), Sangue e onore (Kih), i neopagani di Niklot e i filorussi di Falanga.
Ma c'è anche Rinascita nazionale polacca (Nop), associato al Fronte nazionale europeo di cui fanno parte Forza nuova e Alba dorata e che si assesta su un modesto 0,2% dei voti.
RN A FAVORE DELLE ARMI. Maggiori consensi ha il Movimento nazionale (Rn) il cui programma prevede l'agevolazione all'acquisto di armi e l'opposizione a un'identità di genere «da combattere pubblicamente».
Alle Europee del 25 maggio Rn ha ottenuto l'1,4% delle preferenze pari a circa 100 mila voti, non abbastanza per entrare nel parlamento di Bruxelles.
MARCE PER L'INDIPENDENZA. Rn organizza le marce dell'indipendenza che si tengono ogni 11 novembre a Varsavia e nelle maggiori città polacche e a cui partecipano migliaia di militanti dell'estrema destra nazionalista e anche alcuni membri di Legge e giustizia (Pis), principale partito d'opposizione in parlamento.
A partire dal 2010, le marce sono sfociate in scontri di piazza, violenze e aggressioni razziste e omofobe.
L'ODIO SCENDE IN PIAZZA. Per questo motivo l'11 novembre - una data importante nella quale la Polonia celebra l'indipendenza nazionale - è divenuta una giornata temuta dai polacchi che preferiscono restare a casa e invitano gli stranieri a fare altrettanto. Per condannare i messaggi di odio lanciati dai movimenti di estrema destra, sabato 8 novembre - anniversario della Kristallnacht (la notte dei cristalli) - a Varsavia si è tenuta la contromanifestazione Insieme contro il nazionalismo alla quale hanno partecipato 1.500 persone.

Alle Europee il successo del Knp che ha quattro seggi nell'europarlamento

I segnali di una crescita dell'estrema destra polacca non mancano. Le ultime elezioni Europee hanno premiato un partito nazionalista il cui programma presenta molti punti di contatto con i movimenti nazionalisti xenofobi e omofobi del Paese: dalla reintroduzione della pena capitale alla difesa della famiglia tradizionale.
Grazie al 7,2% dei consensi, il Congresso della nuova destra (Knp) è divenuto il quarto partito polacco. E oggi il Knp vanta quattro rappresentanti a Bruxelles, fra i quali il suo discusso e carismatico leader, Janusz Korwin-Mikke, e Robert Iwaszkiewicz, quest'ultimo di recente alleatosi con i nazionalisti britannici dell'Ukip nell'europarlamento.
IL SOSTEGNO DEGLI UNDER 25. Nonostante solo il 23,8% dei polacchi abbia votato alle elezioni per rinnovare il parlamento Ue, resta il fatto che tre elettori Under 25 su 10 hanno scelto il Knp: nessun altro partito ha ottenuto un simile consenso fra i giovani del Paese.
Chaber rintraccia i motivi di un simile risultato nel peggioramento del sistema educativo polacco che «oggi non fornisce ai giovani strumenti per la conoscenza e la comprensione della democrazia portandoli a credere agli slogan populisti della destra».
APPEAL TRA I MINORENNI. Una tesi appoggiata da Pankowski che ricorda come un sondaggio condotto nelle scuole superiori appena prima del voto europeo abbia evidenziato come il Knp fosse il partito più popolare per i giovani fra i 13 e i 18 anni.
«Questi ragazzi sono gli elettori di domani ed è significativo che si identifichino in un partito antidemocratico, omofobo, antisemita e misogino».
IL SILENZIO DELLA SINISTRA. Secondo Sutowski, infine, il motivo per cui oggi molti giovani polacchi appoggiano l'estrema destra dipende dal fatto che «il centrosinistra non ha saputo comunicare con i futuri elettori sui temi a loro più cari come il lavoro e l'economia. La destra nazionalista, invece, ci è riuscita ripetendo per 20 anni gli stessi messaggi neoliberisti e questo populismo li rende affidabili per gli Under 25».
Saranno dunque le elezioni locali del 16 novembre e quelle parlamentari di ottobre 2015 a confermare o smentire l'ascesa dell'estrema destra polacca.

(Lettera 43)