martedì 9 settembre 2014

La 'decapitazione' della leadership e l'effetto idra del terrorismo...





Di Luca Lampugnan

L'uccisione lunedì scorso di Ahmed Abdi Godane, leader del gruppo qaedista somalo al-Shabaab designato in seguito alla morte per mano americana del predecessore Moalim Aden Hashi Ayro, è un grande risultato per Washington. Non ne ha dubbi John Kirby, portavoce del Pentagono che venerdì, durante una conferenza stampa, ha dato l'ufficialità dell'accaduto confermando il raid aereo della Casa Bianca che a 240 chilometri a Sud della capitale Mogadiscio ha raggiunto Godane. L'aver tolto quest'ultimo "dal campo di battaglia è stata una grande perdita simbolica e operativa per al-Shabab", ha specificato Kirby. Ma è davvero così?

Sicuramente, almeno nell'immediato, la portata (soprattutto simbolica) della morte di Godane avrà un'inevitabile minima ricaduta sul gruppo. Tuttavia, guardando alla storia dei qaedisti somali, l'effetto 'decapitazione' potrebbe durare ben poco. Basti pensare, in questo senso, al caso di Moalim Aden Hashi Ayro, leader di al-Shabab fino al 2008, raggiunto e ucciso proprio quell'anno da un raid aereo a Stelle e Striscie. Al suo posto subentrò Godane, e subito fu chiaro come l'organizzazione non aveva alcuna intenzione di morire su se stessa: durante la leadership di quest'ultimo, infatti, il gruppo riuscì ad entrare nella rete di Al Qaeda, mettendo poi a segno il suo più grande 'successo' fuori dai confini somali con l'attacco al centro commerciale Westgate di Nairobi, in Kenya. E con la morte di Godane, stando al Washington Postgià sostituito da Ahmed Omar, altro combattente estremista, il copione degli islamisti somali non sembra essersi particolarmente stravolto. Insomma, l'uccisione del leader può dirsi automaticamente correlata alla caduta "simbolica e operativa" del gruppo che guida?
Sul punto, gli studiosi appaiono piuttosto divisi. Secondo una ricerca condotta nel 2009 da Jenna Jordon della Georgia Tech, di cui riporta i risultati Kathy Gilsinan per The Atlantic, prendendo in esame 298 capi di organizzazioni ritenute terroriste tra il 1945 e il 2004, solo in pochi casi la 'decapitazione' della leadership ha portato alla disfatta dell'organizzazione stessa. Al contrario, mettendo sotto lente di ingrandimento 90 diverse campagne di insorti tra il 1975 e il 2003, Patrick Johnston della RAND Corporation è giunto alla conclusione che l'uccisione o la rimozione del capo può aumentare le probabilità che un governo riesca a spuntarla nelle campagne contro gruppi e organizzazioni ribelli. Entrambi gli studi, proprio a causa della diversità nei risultati, mettono in evidenza quello che appare come un punto fermo nella tecnica della 'decapitazione' della leadership. Laddove non vi è un culto della persona, dove quindi il leader non è esso stesso la causa, o meglio la personificazione della causa seguita, i gruppi, riconosciuti o meno come terroristi, hanno una maggiore probabilità di uscire indenni dall'uccisione dei loro capi. Inoltre, secondo alcuni studiosi della Northeastern University, la 'decapitazione' è spesso punto di partenza per un aumento delle vittime civili, spirale di violenza dovuta ad una minore "discriminazione" sulle scelte dei target da colpire.
Ad ogni modo, anche guardando ai gruppi armati definiti terroristici che in questi giorni stanno occupando un posto di rilievo su tutti i media nazionali ed internazionali, appare piuttosto chiaro come tali organizzazioni siano più simili al mostro mitologico greco dell'Idra di Lerna di quanto Washington non pensi. L'uccisione di Osama bin Laden, ad esempio, ha certamente allontanato Al Qaeda dal centro dell'attenzione internazionale, così come ne ha diminuito l'impatto. Ma non l'ha sconfitta. Al contrario, con la leadership di Al-Zawahiri, l'organizzazione ha intrapreso la strada di una delocalizzazione sempre maggiore, diventando simbolo di un franchising che tenta di occupare ogni minimo vuoto di potere nelle regioni africane e medio orientali. E l'inutilità delle 'decapitazioni' appare ancora più palese nel caso di Hamas, gruppo ripetutamente colpito dall'imponente offensiva israeliana ma puntualmente in grado di rinascere dalle proprie ceneri e di trovare nuovi leader e figure chiave.
Oggi, il discorso si sposta sull'avanzata irachena e siriana dello Stato Islamico. Le azioni Statunitensi, così come quelle in Somalia e in altri Paesi, mirano a colpire figure chiave. Una tecnica che funziona in merito all'evitare missioni di terra, ma che, e il caso di al-Shabab lo dimostra, rischia di essere un mero palliativo nella guerra all'estremismo.


(International Business Times)

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