Di Luca Lampugnani
Sopratutto in Africa e in Asia, il mercato internazionale della tortura parla cinese. Nel giro di un decennio le aziende del Dragone che producono ed esportano strumenti di vera e propria brutalità, utilizzati per compiere violenze ed estorcere illegalmente e contro ogni principio del diritto umano informazioni da detenuti e sospettati, sono aumentate all'incirca del 364%. Precisamente, scrive Amnesty International in un report di 43 pagine stilato in collaborazione con la Omega Research Foundation, sono passate su tutto il territorio nazionale da 28 a 130, la maggior parte delle quali di proprietà statale. E gli introiti, ovviamente, sono sostanziosi: basti pensare che prendendo ad esempio una sola ditta produttrice, la Cina Xinxing Import/Export, si parla di un commercio limitatamente con l'Africa (dove la società aveva più di 40 Paesi acquirenti al 2012) del valore di 100 milioni di dollari.
Un vero e proprio boom, questo, che avviene in un preciso momento storico in cui la Cina, seppur con qualche blando tentativo di miglioramento, è tra i Paesi dove gli strumenti di tortura e repressione sono più largamente utilizzati in piena violazione dei diritti umani. Nelle carceri, infatti, gli episodi di torture e di altre violenze ai danni di detenuti e accusati in attesa di processo non mancano, tra un vasto utilizzo di manganelli elettrici e manette appositamente costruite per costringere l'individuo in posizioni logoranti e potenzialmente pericolose per la salute.
"Tale mercato, che provoca immense sofferenze, risulta particolarmente lucrativo perché le autorità cinesi non hanno fatto nulla per fermare le aziende che esportano questi strumenti disumani, o per impedire che apparecchiature di norma in dotazione alle Forze dell'Ordine potessero finire nelle mani di chi viola sistematicamente i diritti umani", ha spiegato Patrick Wilcken, tra i ricercatori di Amnesty International. Stando a quanto scritto nel report, delle 130 aziende analizzate dall'ONG e dalla Omega Research Foundation almeno 7 pubblicizzano e commerciano in tutto il mondo manganelli chiodati - la Cina, ad oggi, sembra essere l'unico Paese produttore di tale atrocità -, acquistati e utilizzati principalmente in Cambogia, in Thailandia e in Nepal. Altre 29 aziende sono specializzate nella produzione e nella vendita di manganelli elettrici - esportati massicciamente in Egitto, Senegal, Madagascar e Ghana -, i quali possono essere utilizzati per infierire senza lasciare alcuna traccia visibile su detenuti e prigionieri, colpendoli nelle zone più sensibili del corpo, tra cui inguine, gola e genitali. Ancora, decine e decine di altre aziende sono 'leader' nell'export di manette rinforzate per polsi, caviglie e collo, strumenti che possono portare a danni permanenti mettendo persino in pericolo di vita gli individui su cui vengono utilizzati.
Nel report vengono poi evidenziate le esportazioni di attrezzature che sono legittimamente in dotazione alle Forze dell'Ordine, strumenti che vengono però venduti senza il benché minimo criterio di tutela dei diritti umani. Un esempio riportato in tal senso dai ricercatori riguarda una serie di apparecchiature anti sommossa di fabbricazione cinese vendute massicciamente in Uganda e in Congo, dove sono state poi utilizzate dalla polizia per reprimere nel sangue moti di protesta pacifici durante il corso del 2011. Ancora oggi, specifica l'ONG, queste attrezzatura sono prodotti esportati in entrambi i Paesi, nonostante non manchino segnalazioni e report di continue violazioni dei diritti umani e di un uso della violenza da parte delle Forze dell'Ordine particolarmente radicato.
Tutto questo, sostengono Amnesty International e la Omega Research Foundation, è possibile anche a causa degli scarsi controlli esistenti in Cina in materia di esportazione - una realtà che si riscontra, se si pensa alla vendita di armi e di strumenti di guerra, anche in altre aree del mondo, tra cui gli Stati Uniti e l'Europa -, spicchio di mercato in balia di scarsa trasparenza e nessuna valutazione degli acquirenti in correlazione al prodotto in vendita. Secondo il già citato Patrick Wilcken, questo sistema di esportazione "ha permesso al commercio della tortura e della repressione violenta di prosperare" senza alcun ostacolo, sottolineando quindi l'urgenza di una riforma radicale dei regolamenti dell'export cinese "per porre fine al trasferimento di attrezzature utilizzate per violare i diritti umani" a Paesi non curanti delle regolamentazioni internazionali.
(International Business Times)

Nessun commento:
Posta un commento