Di Stefano Consiglio
L'opinione pubblica è continuamente aggiornata sul conflitto in corso tra Israele e Palestina. Ogni tregua, seppur illusoria, viene segnalata da decine di giornali solamente in Italia. Il numero di morti è continuamente aggiornato, attraverso un triste bilancio che mostra continuamente un trend positivo. Senza voler sminuire in alcun modo la drammaticità di questo scontro, occorre ricordare che il conflitto israelo-palestinese è solo una delle numerose guerre combattute oggi in tutto il mondo. Tra queste la più cruenta, considerando le vittime registrare nell'ultimo anno, è senza alcun dubbio la guerra civile siriana.
Questa guerra, scoppiata nel 2011 nell'ambito della così detta Primavera Araba, ha avuto origine a seguito dell'arresto e tortura di un ragazzo siriano che aveva disegnato un manifesto rivoluzionario sul muro di una scuola. Immediata fu la protesta della popolazione siriana che organizzò una manifestazione a Daraa, una città situata nella Siria sud-occidentale. Le forze di sicurezza aprirono il fuoco sulla folla, uccidendo diversi manifestanti. In quel momento ebbe inizio la rivolta siriana. Diversi gruppi di opposizione si andarono a formare, richiedendo a gran voce le dimissioni del Presidente Assad. Questi gruppi, che inizialmente si limitavano a subire la violenza delle forze di sicurezza, dopo poco tempo iniziarono ad armarsi e la rivolta si trasformò in una guerra civile.
Tutto il resto, dall'uso di armi chimiche da parte di Assad, all'interferenza della Russia e degli Stati Uniti nel conflitto, fa parte ormai della storia di questo Paese in cui, secondo l'Osservatorio nazionale per i diritti umani, 170 mila persone hanno perso la vita dall'inizio del conflitto.
A questo punto una domanda sorge spontanea: che cosa sta succedendo attualmente in Siria e quante sono le possibilità che si giunga rapidamente alla pace?
Per evidenziare l'attualità di questo conflitto è sufficiente ricordare che solo nel mese di luglio oltre 5 mila persone sono state uccise, tra le quali circa mille civili, compresi 225 bambini. Inizialmente in Siria sembrava esserci una netta contrapposizione tra i ribelli anti-Assad, sostenuti dai paesi occidentali, e il Presidente siriano, che godeva del supporto di diversi Stati asiatici e mediorientali, tra cui la Russia, la Cina e l'Iran. Nel corso degli anni, tuttavia, l'illusione che la rivolta siriana consistesse in un conflitto tra un tiranno, Assad, e un popolo oppresso, i siriani, è sparita. Al suo posto troviamo oggi una guerra civile in cui i principali gruppi ribelli sono associati con al-Qaeda o con altre milizie estremiste come lo Stato Islamico, e compiono atrocità del tutto simili a quelle imputate ai militari di Assad.
L'Esercito Siriano Libero, infatti, ha avuto nelle fasi iniziali del conflitto un ruolo preponderante nella lotta contro Assad. Con il tempo, tuttavia, le infiltrazioni jihadiste hanno determinato una moltiplicazione esponenziale dei gruppi estremisti, tra i quali il più pericoloso è sicuramente lo Stato Islamico. Questo gruppo, balzato agli onori della cronaca a seguito della creazione di un califfato islamico nell'Iraq settentrionale, ha conquistato buona parte delle regioni orientali della Siria. I miliziani dello Stato Islamico non combattono soltanto contro le Forze armate di Assad, ma si scontrano frequentemente anche con gli altri gruppi ribelli. Questi, a loro volta, controllano una piccola porzione di territorio nella parte settentrionale della Siria, in particolare l'area intorno alla città di Aleppo. Il Governo di Assad, che inizialmente aveva perso diverse città dietro l'avanzata dei ribellli, oggi controlla tutta la Siria occidentale ad eccezione di alcune piccole aree situate intorno alla città di Daraa. Per quanto riguarda la capitale, Damasco, essa risulta divisa in due parti. Le zone centrali, cioè quelle che ospitano i vari uffici governativi, sono controllate da Assad. Le periferie, devastate e rese irriconoscibili dai continui bombardamenti, sono invece nelle mani dei ribelli. Infine nelle regioni settentrionali vi sono diverse aree controllate dalle milizie curde.

Leggenda: rosso= area controllata dal Governo siriano; blu scuro= area controllata dalle milizie dello Stato Islamico; verde chiaro= area controllata da altri gruppi ribelli; giallo= area controllata dalle milizie curde. CREDIT: wikimedia commons/ Spesh531
Il conflitto combattuto in Siria è diventato, ormai, una guerra di alleanze e divisioni. Le forze governative di Assad hanno trovato un alleato nelle milizie libanesi Hezbollah, sciite come il Presidente siriano, ma considerate terroriste da Stati Uniti, Unione Europea, Egitto, Israele, Australia e Canada. Negli ultimi giorni circa 50 jihadisti sono stati uccisi nel corso di una serie di imboscate organizzate congiuntamente dalle forze di Assad e dalle milizie Hezbollah. Nel frattempo sulle montagne del Qalamun, situate nella parte sud occidentale della Siria, miliziani del Frotne al-Nusra, braccio operativo di al-Qaeda in Siria, hanno stretto un accordo con i guerriglieri dell'ISIS. E' interessante notare che al-Qaeda ha rinnegato i leader dell'ISIS; inoltre questo gruppo e i miliziani del Fronte al-Nusra continuano a combattersi in altre aree del paese. Basti pensare che lo scorso 2 luglio il capo di al Nusra è stato ucciso da una bomba messa nella sua auto, probabilmente dai miliziani dell'ISIS.
Le Nazioni Unite, nel frattempo, hanno smesso di contare il numero di vittime a partire da luglio 2013, dopo aver raggiunto quota 100 mila morti. Nonostante questo chiaro segnale di disillusione da parte dell'Onu, il 14 luglio 2014 il Consiglio di sicurezza ha adottato l'ennesima risoluzione con cui ha domandato alle parti in conflitto di "togliere immediatamente l'assedio alle aree popolate" e di "autorizzare immediatamente il passaggio rapido, sicuro e senza ostacoli alle organizzazioni umanitarie delle Nazioni Unite e ai loro partner". Il problema di questa risoluzione, così come di quelle adottate in precedenza, è che il Consiglio di sicurezza non ha alcuna possibilità di esigere niente né da Assad né dai gruppi ribelli. Un simile potere, infatti, sussisterebbe qualora il Consiglio decidesse di intervenire militarmente in Siria, il che non accadrà mai dato che qualunque intervento richiederebbe il voto favorevole dei cinque membri permanenti, tra cui Russia e Cina, che hanno sempre mostrato la loro contrarietà. Nell'agosto del 2013 si era paventata la possibilità di un intervento americano, giustificato dall'uso di armi chimiche da parte di Assad. In quell'occasione la Russia difese strenuamente il governo siriano, costringendo gli americani a fare un passo indietro. Il problema è che se anche gli Stati Uniti fossero intervenuti in Siria e avessero distrutto il regime di Assad, non è detto che la situazione sarebbe migliorata. In questa nazione, attualmente, oltre mille gruppi ribelli con al servizio circa 100 mila guerriglieri combattono contro le Forze governative e, sovente, gli uni contro gli altri. L'eventuale deposizione di Assad, dunque, avrebbe probabilmente creato un'instabilità politica simile a quella attualmente esistente in Libia, dove si registra la peggiore situazione dalla caduta di Gheddafi.
In questo contesto le possibilità che si giunga ad una rapida pacificazione del paese sono decisamente esigue. Il Presidente siriano non intende assolutamente lasciare il potere, tanto più dopo la vittoria durante le ultime elezioni di giugno. Queste hanno causato un'immediata reazione della comunità internazionale: diverse potenze occidentali hanno definito le elezioni una "farsa", richiedendo le immediate dimissioni di Assad. Del tutto opposta la posizione assunta da paesi come Russia o Iran, che hanno celebrato la vittoria del loro alleato. Il conflitto siriano appare, dunque, come un altro tassello di questa "guerra delle alleanze" combattuta oggi in tutto il mondo, che vede Russia e Stati Uniti guidare le rispettive fazioni. La triste realtà di questa guerra, tuttavia, può essere percepita solamente se si abbandona la logica del potere che la alimenta e si considerano le migliaia di civili, vittime collaterali di un conflitto dimenticato.
(International Business Times)
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