giovedì 28 agosto 2014

Alleanze e inimicizie ai tempi dello Stato Islamico: ecco come l'avanzata di IS sta stravolgendo il Medio Oriente...





Di Luca Lampugnani 

La creazione del califfato tra Siria e Iraq, vasto territorio controllato e governato secondo i dettami dell'Islam più radicale ed estremo, è solo la superficie dello stravolgimento mediorientale causato dall'avanzata senza sosta dello Stato Islamico. Basti pensare a quanto è successo nelle ultime settimane, in un turbine di cambiamenti di fronte, di sorprese e qualche cantonata.
L'Arabia Saudita, ritenuta colpevole insieme alle altre monarchie del Golfo e alla Turchia di aver finanziato fino a ieri i ribelli siriani jihadisti dell'ISIS (nome con cui era conosciuto lo Stato Islamico fino allo scorso giugno), ha recentemente staccato un assegno da 100 milioni di dollari intestandolo all'ONU affinché possa contribuire alla "guerra al terrorismo". La Siria, chiusa a riccio su se stessa da quando mezza Comunità Internazionale le ha dato contro un anno fa in seguito all'attacco chimico nei sobborghi di Damasco, supportata durante le sedute delle Nazioni Unite solamente dall'opposizione di Russia e Cina ad ogni intervento o sanzione, all'inizio di questa settimana ha aperto la porta ad un'azione internazionale congiunta che possa sconfiggere definitivamente lo Stato Islamico, non escludendo dai giochi Stati Uniti e Gran Bretagna.
E ancora l'Iran - alleato di Assad, supporter tanto dell'Esercito di Damasco quanto di Hezbollah in Libano -, che negli ultimi giorni sembra non abbia disdegnato la possibilità di aiutare l'Iraq, storico nemico, nell'affrontare i miliziani jihadisti. La notizia, ad ogni buon conto, è stata poi smentita da funzionari di Teheran, che si sono detti contrari ad ogni azione internazionale. Tuttavia, se davvero così come confermato da fonti curde proprio l'Iran è stato il primo Paese ad inviare armi ai combattenti peshmerga - sulla componente curda si dovrebbe aprire una parentesi a se: in caso di sconfitta definitiva dello Stato Islamico, le comunità curde, in prima fila nei combattimenti, spingeranno per avere il riconoscimento internazionale di un agognato Kurdistan, richiesta che sicuramente sconvolgerebbe ancora una volta il Medio Oriente -, non è da escludere che prossimamente, seppur in sordina, nell'ombra, un aiuto concreto possa arrivare anche fino a Baghdad. Interessante, infine, sarà anche osservare le prossime mosse della Turchia (per anni base operativa dell'ISIS, oggi spaventata da un potenziale effetto boomerang che si sta facendo sempre più insistente) e di Israele, entrambe minacciate alle frontiere dalle conquiste dello Stato Islamico in Siria.
Com'è ormai chiaro, anche le più consolidate amicizie, così come le più fredde inimicizie, di fronte allo Stato Islamico e alla sua brutalità traballano fortemente. In questo senso di riferimento devono essere le parole al vetriolo di Gerd Muller, ministro dello Sviluppo tedesco, che la scorsa settimana ha accusato apertamente il Qatar - l'ennesima monarchia del Golfo che tra influenze internazionali e petroldollari allunga ben più d'un ombra sul Medio Oriente, alleato economico non di secondo piano per Vecchio Continente e States - di essere la mano che arma e il portafogli che finanzia il gruppo estremista sunnita. Per inciso: in merito non ci sono prove ufficiali, tuttavia, secondo alcune stime dello scorso anno, Doha ha fornito ai ribelli siriani contrari ad Assad almeno 3 miliardi di dollari, soldi che per una buona fetta si ritiene siano finiti nelle disponibilità dello Stato Islamico.
Lo stesso discorso, ancora, può essere poi applicato alla già citata Arabia Saudita, così come al Kuwait. Entrambe le monarchie sono sospettate di aver finanziato senza guardare in faccia nessuno ogni forma di ribellione al regime di Damasco, anche quella più radicale ed estremista. E come nel caso della Turchia anche per queste l'effettivo o l'eventuale passo indietro sembra giungere, o giungerà, ormai tardivo.
A questo punto entra prepotentemente nel quadro che stiamo delineando Washington. Proprio quest'ultima, che sembra non disdegnare l'aiuto iraniano ai peshmerga - riforniti di armi anche dai principali Paesi europei -, con la possibilità che sul punto possano anche eventualmente basarsi ulteriori colloqui e distensioni, è destinataria delle occhiatacce di mezzo Golfo, per lo più alleato storico e strategico che mal digerirebbe, senza alcun dubbio, uno scioglimento dei ghiacci polari tra Teheran e la Casa Bianca. Tuttavia, dal punto di vista delle monarchie, questo potrebbe anche non essere lo scenario peggiore. C'è da immaginare infatti che, per quest'ultime, il caso anche solo remoto, anche solo superficiale e indiretto che gli Stati Uniti e la Siria collaborino fianco a fianco per combattere i jihadisti, sia un boccone definitivamente indigesto e con cui corrono il rischio di strozzarsi. Per il momento, dopo la tenue apertura di Damasco, gli animi sembrano essersi calmati in seguito all'esclusione perentoria dalle ipotesi di Washington di collaborare con il regime di Assad.
Tuttavia, in questo senso le domande senza risposta sono molteplici, e tutte nascondono la possibilità che effettivamente, calata la maschera della propaganda, la Casa Bianca possa anche dialogare con Damasco. Ad esempio, se davvero non ci vuole essere alcuna cooperazione da parte Statunitense, come si porrà la questione in base al diritto internazionale? L'intervento a stelle e strisce in Siria, non concordato, non causerebbe un peggioramento netto della situazione essendo a tutti gli effetti una violazione di sovranità? E, in ultimo, anche senza alcuno scambio diplomatico, i raid contro lo Stato Islamico non sarebbero in ogni caso una grossa mano al regime di Damasco?
A queste domande, nei prossimi giorni, l'establishment americano dovrà trovare delle risposte, le quali, ovviamente, avranno conseguenze che, almeno guardandole in questo momento, appaiono devastanti in un senso o nell'altro. Da una parte, perché l'intervento senza l'ok del regime siriano scatenerebbe le ire tanto regionali quanto internazionali degli alleati di Assad, dall'altra perché l'eventuale collaborazione con Damasco e il relativo beneficio che ne riceverebbe il governo sciita incontrerebbe l'opposizione dei Paesi 'amici' degli States.

(International Business Times)

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