Sono 200 mila, scappati dalla violenza dell’Isis e dalle loro case a Mosul e Qaraqosh. Chiedono di venire in Europa, ma inutilmente
di Lorenzo Cremonesi, inviato a Erbil
ERBIL - E adesso? Cosa faranno adesso i quasi 200.000 cristiani iracheni che una ventina di giorni fa dai villaggi della piana di Niniveh sono scappati verso le zone curde? Vai a trovarli nella ventina di centri di accoglienza organizzati in fretta e furia a Erbil e trovi frustrazione, rabbia, senso di abbandono e disorientamento. «Politici, prelati, inviati speciali di associazioni umanitarie sono venuti a trovarci da tutto il mondo. Ci sono stati appelli, annunci, un mucchio di belle promesse. In verità solo dichiarazioni. Bei discorsi che lasciano il tempo che trovano. Nel concreto poco o nulla» dicono.
Parole simili le avevamo udite da un gruppo di giovani accampati in una delle scuole messe a disposizione del patriarcato caldeo il giorno della visita di Matteo Renzi a Erbil. «La comunità internazionale e i capi della nostra Chiesa locale vorrebbero tenerci in Iraq. Ma vogliamo un visto per l’Europa. Basta arabi, basta Islam! Ci uccidono, prendono le nostre donne, rubano le nostre case. Qui non vogliamo più stare» sostenevano proprio mentre Renzi parlava di una «soluzione irachena» per gli sfollati cristiani perseguitati dagli estremisti del «Califfato». Era il 20 agosto. Oggi la questione si è fatta più urgente. Restare, garantiti da nuove condizioni di sicurezza e con l’intervento della comunità internazionale, oppure partire subito, per sempre? Tra i quasi 500 sfollati nella scuola superiore del quartiere cristiano di Einkawa prevalgono le voci di coloro che vorrebbero emigrare. «Ci hanno messo in queste scuole. Ma è un ricovero temporaneo. Tra poco cominceranno le lezioni e noi verremo spostati ancora. Dove? Tra le tende dell’Onu, nel caldo di oggi e il freddo del prossimo inverno, tra la polvere e il fango? Mai. Meglio morire. Presto diventeremo poveracci bisognosi di tutto» esclama tra i tanti Michel Ben Am, 26enne di Qaraqosh. Uno studente che ha dovuto interrompere i corsi alla facoltà di storia dell’università di Mosul azzarda un parallelo: «Siamo diventati come i palestinesi al tempo della guerra del 1948. Persero contro il nascente Stato di Israele anche perché le loro classi alte e gli intellettuali scapparono all’estero. Così per noi. Sono già emigrati i nostri medici, gli ingegneri, i benestanti, insomma la classe dirigente. Qui restano i più poveri, i meno scolarizzati. Le nostre comunità sono decapitate dei loro leader». Suor Rama Stefu, una domenicana di 52 anni che parla benissimo l’italiano, aggiunge: «I cristiani si sentono traditi.
Accusano le forze militari curde di essere scappate troppo veloci di fronte all’offensiva nemica, nonostante la promessa che ci avrebbero difeso sino alla morte. Hanno poi sperato in un’apertura dei visti verso l’Europa. Ma sino ad ora meno di 500 sono partiti, per lo più per Francia, Germania e Turchia. E adesso temono di essere parcheggiati all’infinito nel tedio sporco e degradante nei campi profughi». L’arcivescovo di Erbil, Bashar Warda, interpellato dal Corriere non ha sminuito la questione: «E’ vero che in passato abbiamo cercato di tenere i nostri fedeli in Iraq. Siamo una delle comunità cristiane più antiche al mondo, non è strano che la sua Chiesa lavori per preservarla. Ma oggi non è più così. Ognuno è libero di fare ciò che preferisce. Non sta a noi chiedere i visti per l’estero, eppure comprendiamo le ragioni di chi parte. A coloro che restano faremo di tutto per facilitare l’esistenza nei centri di accoglienza, nella speranza che possano tornare presto alle loro case».
Eppure, incontrando le famiglie organizzate alla meglio in bivacchi di materassi, coperte e seggiole di plastica, non è difficile cogliere quanto le antiche forme di coesistenza tra cristiani e musulmani siano gravemente compromesse. A sentir loro, il problema non sono tanto i fanatici del «Califfato» arrivati con le brigate islamiche siriane o i qaedisti dall’estero. Al cuore delle paure cristiane sta piuttosto la rapidità con cui il vicino di casa, il vecchio compagno di scuola, il bottegaio conosciuto da sempre, il collega di lavoro sunniti «da un momento all’altro» si sono uniti ai giovani jihadisti per rubare, irrompere nelle abitazioni, rapire donne e bambini. «Questi pazzi del Califfato sono soprattutto ladroni. Un branco di criminali che si è voluto arricchire a spese nostre» sostiene Mufid Khudui Dawoud, 37enne operaio di Qaraqosh. La cosa curiosa è che tra loro continuano a parlarsi per telefono. Mufid ha una storia particolarmente drammatica. I «criminali» si sono presi il padre Youssef di 83 anni, assieme allo zio Salem di 80 e le tre cugine: Jackline di 35, Victoria di 30 e Khalima di 28. Lo incontriamo che uno dei rapitori, un certo Abdallah, ha appena telefonato per dettare le condizioni del rilascio: «Convertitevi all’Islam e manderemo un auto per riportarvi a casa. Rivedrete subito i vostri cari». In caso contrario, si prospetta il pagamento di un riscatto. Mufid si consulta con i tre fratelli scappati con lui ad Erbil. Assieme hanno poche centinaia di dollari. Che fare? C’è forse una speranza. Un altro vicino di casa musulmano rimasto a Qaraqosh, con cui si parlano per telefono quotidianamente, promette che cercherà di aiutare. Ma intanto le tre donne sono state spostate in un altro villaggio. Occorre fare in fretta...
(Corriere della Sera Esteri)

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