Di Luca Lampugnani
Non c'è alcuna missione militare attiva in Iraq. La cantilena, da Washington, risuona ad ogni occasione possibile. Eppure, a voler ben vedere, la realtà sembra un'altra. Certo, mancano i fasti del passato, quando alla ricerca di sedicenti armi di distruzione di massa gli Stati Uniti invasero il Paese, supportati dagli alleati europei. Tuttavia, anche se l'entità e la forma sono sostanzialmente diverse, se non completamente non collegabili, affermare che in Iraq non sia in corso nessuna missione, azione o campagna militare, appare piuttosto azzardato e tendenzioso.
L'amministrazione Obama, che in politica estera non ha certo brillato, e che non può presentarsi agli elettori annunciando l'ennesimo pantano a Stelle e Strisce in una terra lontana - anche la psicosi terrorista sembra scemare di fronte alla possibilità di una rinata invasione irachena -, ricorre allora ad alcuni stratagemmi. Manda aerei a compiere raid, distrugge postazioni dello Stato Islamico, colpisce obiettivi mirati, ma non è una missione militare. Nella regione, portaerei e caccia sono pronti all'azione ad una sola parola che dovesse arrivare da Washington, ma non è una missione militare. Sul territorio iracheno, attualmente, benché con compiti che vanno dalla consulenza alla difesa strettamente delle rappresentanze USA (l'ambasciata, ad esempio), ci sono mille soldati Statunitensi, ma non è una missione militare.
Tuttavia, se proprio vogliamo guardare al pelo, sarebbe più corretto dire che non lo è ancora, una missione militare, ma che molto gli somiglia.
Ad ogni nuovo raid aereo sulle postazioni dello Stato Islamico, il gruppo che nel giro di due messi ha messo a ferro e fuoco i territori a nord di Baghdad, costituendo un califfato e trovando persino il tempo di cambiare nome, Washington non può lanciare il sasso e nascondere le mani. Non può fare finta che possa bastare non toccare il suolo - "questa non è un'operazione boots-on-the-ground, stivali a terra" ha detto il Segretario alla Difesa Chuck Hagel - per non essere coinvolti in ciò che, al contrario, inevitabilmente, sta coinvolgendo gli Stati Uniti come non capitava da tempo. Se ad esempio, nello scenario peggiore, nel prossimo futuro dovessero essere colpiti obiettivi Statunitensi in Iraq, come reagirebbe Washington? Cederebbe alla 'vendetta'? Oppure manterrebbe la sua posizione, solo apparentemente, esterna? E qual'ora nel futuro meno auspicabile la Casa Bianca decidesse di rientrare in forze, anche di terra, a Baghdad, cosa succederebbe? Molto probabilmente, in quest'ultimo caso, il Paese tornerebbe a scoppiare di un settarismo brutale, dando ancora ulteriore forza a coloro che in questo momento, pur di combattere l'invasore occidentale, sono scesi a patti con lo Stato Islamico.
La verità è che la situazione irachena è un ginepraio complicato tanto dall'avanzata dello Stato Islamico, quanto dallo stallo politico di Baghdad, che favorisce i militanti sunniti giunti, all'inizio di giugno, dalla Siria. La verità, al contempo, è che gli Stati Uniti, così come i partner europei e la Comunità Internazionale intera, non sappiano bene cosa fare, dove mettere le mani per disinnescare una bomba sul punto di esplodere. Ancora oggi, infatti, molte forze sembrano non aver compreso a fondo cosa sia lo Stato Islamico, quanto sia diverso dagli estremismi cui eravamo abituati fino a qualche mese fa. Se i vari gruppi jihadisti e non disseminati per il globo sono nella maggior parte dei casi mere milizie, probabilmente consapevoli che una vera e propria presa di potere totale è piuttosto difficile, l'ex ISIS, rinnegato da Al Qaeda ai tempi della rivolta siriana a causa dell'eccessiva brutalità, agisce e si sente uno Stato a tutti gli effetti, dimostrando di avere una struttura piuttosto complicata, per lo più occulta, ma in grado comunque di gestire intere città e di governarle a suon di sharia e violenze.
È anche per questo, proprio per questa mancanza di comprensione, che le uniche mosse della Comunità Internazionale, almeno fino ad ora, agiscono a distanza. Dalle missioni umanitarie fino all'invio di armi ai peshmerga curdi e i raid aerei, la distanza tradisce, o sembra tradire, una mancanza di effettiva strategia, di un piano che possa nel tempo necessario sconfiggere lo Stato Islamico. Attualmente, e questo appare ovvio, né i consulenti né tanto meno le missioni aeree militari degli Stati Uniti possono raggiungere questo obiettivo. I raid possono rallentare l'avanzata, colpire momentaneamente ed essere efficaci quindi per guadagnare tempo, ma è indubbio che per fermare i jihadisti dello Stato Islamico - di primaria importanza, soprattutto in un Medio Oriente incandescente come quello odierno -, la strada da intraprendere deve essere obbligatoriamente un'altra.
E per far ciò, bisogna innanzitutto comprendere a fondo cosa sia, al di la della brutalità, lo Stato Islamico. Piuttosto che cercare di colpire militarmente e sommariamente, districare la complicata matassa delle finanze del gruppo, infierendo quindi laddove l'IS sembra avere le sue maggiori risorse, potrebbe essere una di queste strade. Oppure, come ritengono molti osservatori, a guidare l'offensiva contro i jihadisti dovrebbe essere un Paese della regione, probabilmente in grado di comprendere meglio delle forze occidentali tutte le sfaccettature dello Stato Islamico, che non può e non deve essere sottovalutato.
In questo senso, tanto Washington quanto la Comunità Internazionale tutta, dovrebbero ricordare che la cosiddetta guerra intelligente, l'utilizzo di raid, di droni e quant'altro, non ha mai sconfitto nulla. Non Al Qaeda, che nonostante tutto, nonostante la sua continua scomparsa dagli schermi, muove numerosi fili nel dietro le quinte mediorientale. Non i gruppi, affiliati e non, che dall'Iraq alla Siria, fino all'Afghanistan, sono sempre rinati dalle loro ceneri, animati dal fanatismo, dall'odio e da una ricerca del potere spesso infruttuosa, ma comunque di portata, in termini di violenze e vittime, macroscopica.
(International Business Times)

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