martedì 30 settembre 2014

Schiavitù moderna: chi sono le vittime e in che cosa consiste questo fenomeno...





Di Stefano Consiglio

Quando si parla di schiavitù la maggior parte delle persone tendono a pensare ad un fenomeno che appartiene ad epoche passate, un'ingiustizia che la società "civilizzata" è riuscita ad eliminare. Questa visione idilliaca della modernità, tuttavia, deve fare i conti con i dati agghiaccianti forniti dalle Nazioni Unite secondo cui, solamente nel 2008, 2,5 milioni di esseri umani provenienti da 127 paesi diversi sono stati venduti allo scopo di fornire prestazioni sessuali, per l'espianto di organi o altre parti del corpo, per chiedere l'elemosina, per adozioni illegali o matrimoni forzati.
L'immagine mostra la diversa intensità del traffico di esseri umani nei vari paesi. Leggenda: In ordine crescente crimini accertati verde-giallo-arancione-rosso. Source: Wikipedia Commons, autore Magamiako
L'immagine mostra la diversa intensità del traffico di esseri umani nei vari paesi. Leggenda: In ordine crescente crimini accertati verde-giallo-arancione-rosso. Source: Wikipedia Commons, autore Magamiako

Una chiara definizione di questo fenomeno è fornita dai Protocolli di Palermo, adottati tra il 12 e il 15 dicembre del 2000, in cui si legge che il traffico di esseri umani consiste in ogni atto di coercizione o di inganno avente lo scopo di ottenere un vantaggio dallo sfruttamento sessuale, di lavoro, di schiavitù, di commercio o di organi di una persona. Sebbene abbia una certa rilevanza anche a livello locale, questo crimine ha una portata chiaramente trans-nazionale che è stata più volte sottolineata dalle Nazioni Unite ed è anche alla base delle varie risoluzioni e protocolli adottati in materia.
I vantaggi economici ottenuti da quella che possiamo facilmente definire una forma di "schiavitù moderna" sono enormi. Un tentativo di effettuare una stima degli introiti derivanti dal traffico di esseri umani è stato intrapreso dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) nel 2005. Patrick Belser, il funzionario dell'agenzia Onu incaricato di redigere il report, ha calcolato che una persona sfruttata economicamente può produrre ogni anno tra 360 (nei paesi dell'Africa sub-sahariana) e 30 mila dollari (nelle economie industrializzate). Questi valori crescono sensibilmente se si prendono in considerazione i così detti "schiavi sessuali" che garantiscono alle persone che li sfruttano guadagni variabili tra 10 mila (Africa sub-sahariana) e 67 mila dollari (paesi industrializzati). Utilizzando questi dati come base di calcolo Belser ha concluso che il traffico di generi umani genera ogni anno scambi economici per un valore pari a 31,6 miliardi di dollari.  La maggior parte dei profitti derivanti da questo crimine vengono ritenuti dallo sfruttatore, mentre solo una minima parte viene incassata dai reclutatori/trafficanti, i quali sovente vengono semplicemente pagati per la cessione della loro "merce".

La maggior parte delle vittime dei trafficanti sono persone provenienti da paesi in via di sviluppo che vengono destinate ad altri paesi non industrializzati. Solamente l'11% delle tratte ha come luogo di destinazione/sfruttamento un paese industrializzato. Ciò non deve far pensare che questo crimine è un problema che riguarda solamente paesi che potremmo definire "non civilizzati", parafrasando la definizione utilizzata dalle Nazioni Unite. Stando ai dati forniti dalla National Crime Agency britannica, infatti, il numero di persone sfruttate in GB come schiave è aumentato nell'ultimo anno del 22 %. Tra le 2.744 persone identificate dalle autorità locali come possibili vittime dei trafficanti, oltre il 40% erano destinate a diventare schiavi sessuali e il 30% sarebbero stati avviati a lavori manuali. È bene sottolineare che il caso dell'Inghilterra non è isolato; la tratta degli esseri umani, infatti, è considerata uno dei crimini trans-nazionali con il tasso di crescita più elevato, specialmente nei paesi industrializzati. Ciò dipende dal fatto che i trafficanti, sfruttando una persona in un paese "ricco", ottengono un profitto che è alle volte 50 volte maggiori rispetto a quello ottenuto in paesi in via di sviluppo. Nonostante le varie risoluzioni adottate dalle Nazioni Unite e gli interventi in materia da parte dei singoli Stati, la tratta degli esseri umani rappresenta una delle più grandi emergenze umanitarie del nostro tempo. Stando agli ultimi dati forniti dall'UNODC (United Nations Office on Drugs and Crimes) attualmente nel mondo oltre 30 milioni di persone sarebbero ridotte in schiavitù, costrette a vendere il proprio corpo o a svolgere altri servizi per il beneficio dei loro aguzzini.


(International Business Times)


Germania come Guantanamo Violenze sui migranti con foto...







di Mattia Eccheli 
Düsseldorf La Germania, spesso indignata per i soprusi a danno dei migranti in altri paesi europei, deve fare i conti con uno scandalo maturato dentro casa, una faccenda grave, se qualcuno ha paragonato i casi di maltrattamenti come quelli che si sono registrati negli anni scorsi a Guantanamo, la prigione cubana dedicata dagli americani alla detenzione dei terroristi catturati durante la guerra in Afghanistan prima e Iraq dopo. Foto e video parlano chiaro. Un immigrato in ginocchio, presumibilmente già picchiato, accanto ad un materasso pieno di vomito che si sente chiedere se “ne vuole ancora”. Una foto che immortala un agente della sicurezza che schiaccia a terra un uomo legato, con le suole delle scarpe. Il caso è esploso con inaudita violenza ed è subito arrivato fino al governo. A farne le spese è stata immediatamente l’agenzia che si occupava del servizio di guardia in due dei centri dove sarebbero avvenute le violenze e che, a quanto pare, aveva ingaggiato alcuni elementi con precedenti penali. E così la Germania – i n o rridita per quello che accadeva a Lampedusa – adesso deve arrendersi ad un’evidenza scomoda. Ma difficile da digerire. Le violenze sarebbero state segnalate in almeno tre diversi centri (a Burbach, Essen e Bad Berleburg) per richiedenti asilo del Nord Reno Westfalia, il land più popoloso ed a guida socialdemocratica. L’ULTIMO EPISODIO riguarda due uomini della security di 30 e 37 anni, ma di una società diversa da quella coinvolta fino a questo momento. I funzionari sotto osservazione per i loro comportamenti sono almeno una dozzina. Lo scaricabarile sulle responsabilità è già cominciato e si delinea anche in Germania il grande business dell’accoglienza, perché i centri costano ed i comuni lamentano di non avere fondi e strutture a sufficienza. I privati sopperiscono in qualche modo, naturalmente con ricarichi e, a quanto pare, oltre i limiti della legalità. I politici assicurano che i colpevoli verranno perseguiti. La polizia indaga ad ampio spettro. Anche perché sull’onda dello scandalo non è da escludere una serie di nuove denunce. Come era accaduto a Guantanamo o i altri centri di detenzione, gli aguzzini non intendono sottrarsi al sadico piacere di immortalare i loro soprusi. E le immagini circolate finora sembrano già sufficientemente chiare: quelle che dovevano essere delle foto da esibire come “trofei” si sono rivelate un boomerang per coloro che si erano fatti immortalare. “SONO CRIMINALI all’opera”, ha accusato Ralf Jäger, ministro degli interno del Nord Reno Westfalia, dichiarando in una conferenza stampa che ora tutto il personale verrà indagato, ordinando ai funzionari di polizia di verificare tutti i 19 centri di accoglienza nella regione. “Non permetteremo che le persone che sono venute qui in cerca di rifugio dalle persecuzioni e dalla guerra subiscano violenze”, ha aggiunto. È emerso che uno degli indagati aveva rilasciato un’intervista nella quale indicava esplicitamente una “chiara matrice di destra” in alcuni dei propri colleghi. Anche per questo è stato sollecitato l’intervento ai più alti livelli per verificare i curriculum degli agenti ingaggiati dalle diverse società. Il governo ha fatti sapere che si aspetta circa 200mila domande di asilo per quest’an – no, la cifra più alta a partire dai primi anni ‘90. Fino alla fine di agosto, 99.592 persone avevano cercato asilo in Germania, quasi il 60% in più rispetto ai primi otto mesi del 2013.

“Isis può diventare minaccia nucleare”: allerta Gb. In Siria decapitate 3 donne...





LONDRA – “L‘Isis può diventare una minaccia nucleare”: l’allarme arriva da Londra. Il ministro degli Interni Theresa May è lapidaria: “Se non verrà fermato, lo Stato Islamico potrebbe diventare uno Stato terroristico e costituire anche una minaccia nucleare, perché potrebbe dotarsi di armi chimiche, biologiche e nucleari”. L’avvertimento arriva nel giorno in cui i combattenti jihadisti hanno fatto quattro nuove vittime, decapitate. Si tratta di quattro curdi, tra cui tre donne, fatti prigionieri durante i combattimenti vicino alla città siriana di Kobane. Le loro teste sono state esposte nella città di Jarablus.
Per contrastare l’avanzata dell’Isis il Regno Unito ha deciso di rendere illegali associazioni, gruppi e organizzazioni ritenute pericolose. E non esclude il conferimento di poteri supplementari alla polizia. A rischio anche interventi televisivi, discorsi pubblici e commenti sui social network. E ovviamente questa possibilità fa discutere per il possibile rischio per la libertà di espressione e libertà civili.
Londra si è da poco unita agli Stati Uniti nei raid sulla Siria e sull’Iraq. Un’operazione a cui Washington ha destinato circa 800 milioni di dollari. Intanto le intelligence occidentali hanno identificato i boia dell’ostaggio francese Harvé Pierre Gourdel.
(blitz quotidiano)

Giornalisti in Siria. Ma ne vale la pena?...





(di Tom A. Peter, per New Republic. Traduzione dall’inglese di Camilla Pieretti). Circa un anno e mezzo fa, mi sono ritrovato nel salotto di un lussuoso condominio affacciato su una spiaggia di Naples, in Florida. In due anni da inviato in Medio Oriente, per la prima volta ero tornato negli Stati Uniti per una breve visita. Trascorrevo le vacanze con la mia famiglia e un giorno siamo finiti in questo appartamento, a casa dei ricchi parenti di un amico del mio fratellastro. Avevo sperato di godermi la vista in santa pace, ma sono stato subito coinvolto nella conversazione.
La padrona di casa mi ha domandato dove vivevo. In una cittadina della Turchia meridionale, è stata la mia risposta. Com’era prevedibile, mi ha subito chiesto cosa facessi lì. “Sono un giornalista inviato in Siria”.
Senza alcuna esitazione, la nostra ospite ha subito ribattuto: “E le notizie che trasmetti sono vere?”. Dal tono con cui ha posto la domanda, sembrava che stesse chiedendo a un lottatore di wrestling se quello che accade sul ring è reale. Si sa che è tutta una finzione, inutile negarlo.
Imperterrita, ha continuato dicendo che era certa che la stampa non dicesse tutta la verità e voleva capire perché. Sapeva che il presidente Bashar al Asad era cattivo, ma da chi era costituita l’opposizione per l’esattezza? (Era il dicembre del 2012, quando la resistenza siriana era ancora dominata dai moderati).
“Ho scritto un pezzo su questo argomento proprio la settimana scorsa, poco prima di tornare qui”, le ho risposto. Ne parlava anche il New York Times del giorno, una copia in bella vista sul tavolino del salotto. L’ho indicato: “Se Le interessa, sul giornale di oggi c’è un lungo articolo dedicato alla questione”.
James Foley era uno di coloro che si sono interessati all’argomento. Uno degli ultimi articoli che ha scritto perGlobalPost, nell’ottobre del 2012, raccontava delle crescenti divisioni tra i militanti dell’opposizione e i civili ad Aleppo. Poco tempo dopo aver inviato il comunicato stampa, Foley è stato rapito e tenuto prigioniero per più di 600 giorni, fino al 19 agosto scorso, quando è stato decapitato dallo Stato islamico, che ha poi caricato su Internetil video dell’esecuzione.
Mi sono interrogato spesso sui rischi che reporter come me affrontano quotidianamente nelle zone di guerra. In seguito alla morte di Jim, le mie perplessità si sono fatte più forti che mai.
Dopo sette anni passati a lavorare tra Medio Oriente e Afghanistan, lo scorso ottobre sono tornato negli Stati Uniti e ci sono rimasto. Da allora ho incontrato innumerevoli “consumatori di notizie” come quella donna in Florida, chiusi nei loro lussuosi appartamenti e circondati da informazioni che si rifiutano di leggere o di prendere in considerazione.
Oggi i giornalisti negli Stati Uniti sono disprezzati come mai prima. I servizi a sfondo politico, che solitamente sono i più dibattuti e che, grazie alla loro rilevanza, sono quelli che più influenzano l’opinione pubblica sulla stampa, si mantengono inesorabilmente imparziali, come dimostrato dalla meta-analisi di decenni di articoli relativi alle campagne presidenziali svolta dal professor David D’Alessio della University of Connecticut. Tuttavia, i lettori sono convinti del contrario. In un sondaggio svolto nel 2011 dal Pew Research Center, due terzi degli intervistati hanno dichiarato che le notizie trasmesse dalla stampa sono perlopiù imprecise, e quasi un terzo ha affermato che la stampa “non è professionale”. Il 42 percento ha definito il giornalismo immorale, mentre solo il 38 percento l’ha giudicata una professione eticamente valida.
Lavorando oltreoceano, non mi sono soffermato spesso a pensare come la gente reagisca alle informazioni che riceve dalla stampa. Certo non ho mai creduto che la gente smaniasse per ricevere notizie dall’estero: ho sempre immaginato che la reazione più comune fosse il disinteresse, ma mi consolavo pensando che il mio lavoro forniva un archivio di notizie sempre disponibili per chi un giorno desiderasse approfondire un determinato tema. Soprattutto, però, mi piaceva fare il giornalista perché amavo l’impegno quotidiano che questa professione richiede. E ogni volta che mi capitava qualcosa di brutto, come essere coinvolto in un bombardamento aereo o vedere una mina esplodere sotto il furgone proprio davanti al mio, l’idea di agire per un fine superiore mi convinceva che ne valeva la pena.
Nel novembre 2012 ero inviato sul campo ad Aleppo, la città più popolosa della Siria. All’epoca il conflitto era ancora nelle fasi iniziali, lo Stato islamico non era ancora stato formalmente istituito e molti militanti che combattevano nelle file dell’opposizione moderata collaboravano di buon grado con i giornalisti, aiutandoli ad arrivare alla linea del fronte. Quando si diffuse la notizia che l’opposizione era riuscita a conquistare un ospedale di importanza strategica ai margini della città, io, altri tre reporter e un interprete chiedemmo un passaggio ai ribelli nel cassone di uno dei loro furgoni per andare a dare un’occhiata.
La situazione all’ospedale non era niente di eccezionale nel contesto della guerra civile siriana. Al termine della battaglia, tutto quello che restava erano fori di proiettile, vetri rotti e medicinali sequestrati, oltre a una manciata di ribelli desiderosi di dare spettacolo per mostrare i loro progressi. I soldati ci chiesero se volevamo seguirli mentre tentavano di guadagnare ulteriore terreno e combattere su per la collina fino a un vicino villaggio di lealisti. Declinammo l’invito per quella che sembrava destinata a essere (e che in effetti fu) solo una cruenta lotta verso la morte.
Sulla via del ritorno, pigiati stretti in una berlina, un’altra auto ci tagliò la strada. Ne uscì un gruppo di uomini armati che ci circondò, puntando i Kalashnikov. Per un attimo non provai niente. Sembrava la scena di un rapimento di un qualunque film d’azione. Ma, superato lo shock, mi tornò in mente quello che era successo solo un paio di mesi prima, quando un gruppo di lealisti aveva individuato e ucciso Mika Yamamoto, inviata giapponese ad Aleppo. Attesi i proiettili che mi avrebbero tolto la vita.
Al contrario, uno degli uomini armati trascinò il nostro autista fuori dall’auto e lo fece entrare nella loro, mentre un altro si mise al volante e diede gas. Pensai di aprire la portiera e lanciarmi fuori, nella convinzione che rotolare giù da un’auto in corsa fosse meglio che scoprire cosa ci aspettava all’arrivo. Tuttavia, la velocità folle dell’auto lanciata per le vie della città e la macchina carica di uomini armati subito dietro di noi rendevano la fuga impossibile. Mi accasciai contro lo schienale, sconvolto al pensiero di aver buttato via la mia vita. Quella non era la mia terra, non era la mia guerra ma per questo sarei andato incontro a una morte orribile. Nel migliore dei casi, sarei diventato un ostaggio per chissà quanto tempo.
Per fortuna mia e dei miei colleghi, il nostro destino era molto diverso da quello che avevo temuto. Per ragioni che ancora stento a capire, fummo portati al quartier generale dei nostri rapitori, che ci diedero da mangiare e ci dissero di non preoccuparci: si era trattato solo di un malinteso. Dopo diverse ore di tensione, ci portarono fino a un baracchino a bordo strada, ci offrirono un caffè e ci lasciarono andare in una zona relativamente tranquilla nel centro di Aleppo.
Poco più di un mese dopo me ne stavo su una comoda poltrona di quell’appartamento in Florida, sottoposto a una sorta di interrogatorio sugli standard giornalistici.
Scrivere reportage di guerra per una nazione apertamente schierata ha tolto al giornalismo il valore di missione civica che personalmente gli attribuivo. Perché rischiare la pelle per racimolare notizie destinate a persone che cercano solo le informazioni che vogliono, bollando le storie e i fatti che non si conformano alla loro opinione come non obiettivi o poco accurati?
E, senza un fine superiore, che senso ha fare il reporter? Forse potrebbe essere annoverato tra i “lavori alla moda” per i neolaureati, ma, basandosi su fattori quali livello di stress, stipendio e instabilità lavorativa, un sito di carriere professionali ha messo il giornalismo al secondo posto nella classifica dei mestieri peggiori d’America. Bidelli, lavapiatti e netturbini hanno ottenuto un punteggio più alto. Per quanto si possa amare il proprio mestiere, è dura non farsi logorare da un lavoro che a volte porta a rischiare la vita per dei lettori che alla fine si chiedono se tu corra tutti quei pericoli solo per qualche oscuro secondo fine.
Quando lavoravo in Medio Oriente, mi è capitato di incontrare un paio di volte Jim Foley, ma lo conoscevo perlopiù di fama: un giovane socievole e tranquillo, in grado di farti ridere anche nelle situazioni più difficili. Ora che non c’è più, vorrei poter credere che una persona tanto straordinaria sia morta nel tentativo di informare un pubblico americano in trepidante attesa di conoscere la verità. Non è quindi facile accettare la realtà e pensare che è morto mentre la gente non faceva altro che riempirsi di preconcetti sulla sua professione e sugli argomenti di cui si occupava senza minimamente preoccuparsi di leggere le notizie che lui gli forniva.
(SiriaLibano)

La vita della gente nel campo profughi di Yarmouk...(Video)





Forze del regime siriano continuano a tagliare acqua e cibo nel campo profughi palestinese di Al Yarmouk ... Un disastro umanitario è prevedibile, come quella che ha ucciso le persone di  malnutrizione...
20.000 civili assediati nel campo senza acqua da due mesi...
I timori sono grandi circa la diffusione di malattie contagiose, perché la maggior parte delle persone bevono dai pozzi la cui acqua non è potabile...
Il campo di Al Yarmouk è uno dei più grandi campi profughi palestinesi in Siria...
Si trova a sei miglia dal centro di Damasco...
Dal 17 Luglio 2013 il regime vieta l'ingresso di alimenti o prodotti medici, spingendo più di 180.000 persone a lasciare i campi a cercare rifugio in altre parti della Siria o all'estero...

Isis, decapitati 4 miliziani curdi in Siria: 3 sono donne Nuove esecuzioni a Kobane. Dalla Francia: identificati i rapitori del turista decapitato....





I jihadisti dello Stato islamico (Isis) hanno decapitato quattro miliziani curdi, di cui tre donne, fatti prigionieri nei combattimenti vicino alla città siriana di Kobane. La notiaize è stata data dall'ong Osservatorio nazionale per i diritti umani, che ha aggiunto come le teste delle vittime siano state esposte nella città di Jarablus.
L'ong ha aggiunto che le forze jihadiste stanno continuando ad avanzare dal lato orientale verso Kobane, vicino al confine con la Turchia, e sono arrivate ormai a due o tre chilometri dalla città. Oltre 160 mila civili curdi sono fuggiti dalla città verso la Turchia dal 16 settembre scorso, quando l'Isis ha cominciato la sua offensiva. I jihadisti si sono già impadroniti di circa 70 villaggi.
IDENTIFICATI I RAPITORI DEL TURISTA FRANCESE DECAPITATO. Intanto, secondo quanto riferito dall'emittente radiofonica France Info, sarebbero stati identificati i rapitori di Hervé Pierre Gourdel, il turista francese preso in ostaggio dai terroristi dell'Isis e decapitato in Siria il 24 settembre.

(Lettera 43)

Siria, Onu: oltre 3 milioni i rifugiati all'estero Decine di migliaia fuggiti in Libano, Turchia, Giordania. E in 11 milioni sono senza assistenza....








Oltre 3 milioni di siriani sono rifugiati e registrati nei Paesi vicini tra cui Libano, Turchia e Giordania. Lo ha detto il capo delle operazioni umanitarie dell'Onu, Valerie Amos, nel corso di una riunione del consiglio di Sicurezza sul Paese mediorientale.
Amos ha poi precisato che 11 milioni di siriani hanno bisogno di assistenza, e che i civili sono ancora presi sistematicamente di mira. Sul fronte dell'accesso degli operatori umanitari, invece, ci sono stati solo «modesti progressi».

(Lettera 43)

Il Mossad e il reclutamento a portata di mouse: il volto (quasi) mediatico dell'Intelligence d'Israele...





Di Luca Lampugnani 

Di diritto il Mossad rientra tra quelle organizzazioni di Intelligence che più affascinano e fanno parlare di se, proprio per quella capacità senza rivali di rimanere nell'ombra, di essere alle spalle di molti avvenimenti pur mantenendosi ben lontano dalle luci della ribalta, alimentando leggende e dicerie che a loro volta alimentano il mito. E se le operazioni e le sue mosse erano e sono assolutamente segrete, riuscire ad entrare a farvi parte aveva la stessa identica cortina di oscurità tutto intorno, fatta di incontri lontani da orecchie indiscrete, di annunci criptici su giornali e di colloqui in anonimi palazzi ed edifici della capitale israeliana, Tel Aviv.
In futuro, tuttavia, le cose potrebbero cambiare per l'"Istituto per l'intelligence e servizi speciali" - nome completo dell'Intelligence israeliana, 'riassunto' in Mossad che, tradotto letteralmente, significa "istituto" -, soprattutto per quanto riguarda il reclutamento di nuovi 007. Come riportato tra gli altri dal Jerusalem Post e dal britannico Guardian, l'agenzia di spionaggio di Tel Aviv si è infatti aperta al WWW lanciando una piattaforma on-line dove rendere possibile le auto-candidature per chi vuole entrare a farne parte, rivoluzionando il proprio sito internet preesistente e rendendolo più appetibile per gli utenti della rete e prevedendo una versione, ovviamente, in ebraico, e altre in inglese, francese, russo, arabo e farsi.
Un messaggio accattivante - "Join us to see the invisible and do the impossibile" ("unisciti a noi per vedere l'invisibile e fare l'impossibile") - accoglie gli avventori e i possibili candidati ad un impiego nel Mossad, diviso per diverse categorie di lavoro: operations, intelligence, technological e cyber. Il tutto, inoltre, viene corroborato nella versione ebraica del portale da un filmato (anch'esso in ebraico) che potrebbe essere facilmente scambiato per un qualsiasi trailer hollywoodiano, un video di 1 minuto e 23 secondi dove sono illustrate, almeno in parte, le attività dell'agenzia tra droni, spie e agenti sotto copertura.




Secondo il direttore dell'Intelligence ebraica, Tamir Pardo, l'operazione mediatica del Mossad, una vera e propria novità, è da leggersi nell'ottica dell'importanza assoluta di "continuare a reclutare le migliori menti, in modo da poter affrontare le grandi minacce che in questo momento mettono in pericolo lo Stato di Israele". Inoltre, come specifica lo stesso Pardo, "la qualità del capitale umano è uno dei segreti per il successo del Mossad". Sul sito, inoltre, è possibile comprendere quanto la ricerca dell'Istituto di nuovi impiegati sia del tutto internazionale, risvolto confermato da un annuncio che recita: "quale che siano il vostro paese, la vostra nazionalità o la vostra religione, potete contattarci".
Come sottolinea il già citato Guardian, nonostante l'iniziale pubblicizzazione del 'nuovo volto' in materia di reclutamento, il Mossad per il momento tiene la bocca particolarmente chiusa sull'operazione. Tuttavia, spiega il quotidiano britannico, l'iniziativa sembra aver incontrato il favore di molti ex agenti dell'Intelligence israeliana - tra cui Gad Simron -, i quali hanno sottolineato quanto in tempi 'nuovi' siano necessarie azioni 'nuove' per rimanere al passo: "é il 21esimo secolo. Questo riesce a dare all'agenzia la possibilità di raggiungere il tipo di persone che non ha mai raggiunto prima", sostiene Simron.
Insomma, benché l'apertura mediatica sia notevole, il Mossad ci tiene a mantenere gran parte della sua proverbiale segretezza. "Le informazioni relative alle attività dell'Intelligence per lo più non diventano pubbliche, e spesso ciò che viene diffuso dopo numerosi anni dalle operazioni è solo la punta di un iceberg di azioni che talvolta sconfinano nell'immaginazione", spiega il direttore Pardo nelle parole che danno il benvenuto on-line agli avventori del sito dell'agenzia, dove in effetti è possibile accedere ad una sorta di storiografia parziale di alcune operazioni degli 007 di Israele. "Questo sito ti da un breve scorcio di cosa è il Mossad - continua Pardo -, ma ti rivelerà solo una parte del suo passato e delle sue attività".


(International Business Times)

Le lacrime strazianti di chi ha perso tutta la famiglia...(Video)





Sulle tragedie del mare, Amnesty contro la UE...





Il bilancio delle vittime aumenta, mentre l’Europa guarda da un’altra parte”, questo è l’allarme lanciato oggi da Amnesty International durante la presentazione, a un anno di distanza (11 ottobre 2013) dalla morte di oltre 400 immigrati naufragati nei pressi di Lampedusa, di un’indagine sugli arrivi dei migranti in Italia e Malta. Tra il 1988 e il 15 settembre 2014, circa 21.344 persone sono annegate nel Mar Mediterraneo durante il tentativo di traversata. Di queste, circa 2.600 sono morte fra il 2011 e il 2013. Nel corso del 2014 le vittime del mare sono tragicamente aumentate: 2.400 morti, 2.200 solo da giugno. La Ong accusa la UE di aver contribuito, con una mancanza di azione concreta, alla spirale di migliaia di vittime di rifugiati e migranti che intraprendono il viaggio della speranza verso le coste europee. Solo il nostro paese ha cercato di arginare questa tragedia negli scorsi mesi con l’Operazione Mare Nostrum nel Mediterraneo

Jihad in Siria e Iraq: la strategia di "recupero" danese...





di Luca Marchesini 

Mentre i governi lanciano l'allarme sugli jihadisti nati in Occidente che si uniscono ai movimenti islamisti in Siria ed Iraq e i servizi si attivano per individuarli e controllarne le mosse, la Danimarca adotta una prospettiva diversa e pensa ad un loro recupero.
La finalità ultima della pena, anche nella Costituzione italiana, dovrebbe essere il recupero del condannato ed il suo successivo reinserimento nel tessuto sociale. Un principio simile dovrebbe ora essere applicato nei confronti degli jihadisti di nazionalità danese che abbiano deciso di abbandonare la strada fin li intrapresa.
Un programma di riabilitazione è stato appositamente predisposto per offrire una seconda chance ai militanti pentitiLa prima fase, la più complessa, consiste nel trasferimento dei soggetti coinvolti dalla linea del fronte alla città danese di Aarhus, la seconda del paese per importanza. Qui gli islamisti vengono accolti in un centro polifunzionale dove ricevono cure mediche per le eventuali ferite, e dove vengono poi sottoposti, in una terza fase, ad un trattamento psicologico per lo stress post-traumatico. Un po' come succede per i militari reduci dal fronte. Una volta raggiunto un livello soddisfacente di benessere fisico ed equilibrio psicologico, gli ex, si spera, jihadisti, vengono accompagnati nella ricerca di un impiego o sostenuti nella ripresa degli studi.
Il programma, messo a punto dai servizi sociali e dalla polizia di Aarthus, prevede anche un percorso parallelo per le famiglie un cui membro hè partito per combattere in Siria o in Iraq. I familiari sono incoraggiati a mantenere un contatto, il più stretto possibile, con la persona al fronte, ad esempio attraverso l'utilizzo di Skype. La pressione esercitata dalla famiglia può essere un elemento decisivo per il ravvedimento; inoltre, le informazioni raccolte vengono utilizzate dai servizi per accrescere la loro base di conoscenze sulla rete jihadista attiva in Danimarca e perindividuare il volontario nella zona di conflitto.
Nonostante la presenza nel paese di formazioni politiche di destra che individuano negli immigrati musulmani il principale bersaglio della loro propaganda, la Danimarca da dimostrazione di coraggio e, forse, di lungimiranza. Un approccio unicamente repressivo potrebbe infatti rivelarsi contro-producente, sul lungo periodo, nel contrasto all'islamismo militante nei paesi occidentali.
Si calcola che dall'inizio del conflitto in Siria, nel 2011, oltre 100 danesi siano partiti per combattere tra le fila dei gruppi islamisti contro l'esercito di Assad.
(AgoraVox)

Isis, Obama non ascoltò l'intelligence Si è ritirato troppo presto dall'Iraq. Non ha ascoltato gli allarmi di Cia e Dia. Sbagliando lettura sul Medio Oriente. E la linea del realismo si è dimostrata inefficace....





di Mario Margiocco

«Non sono stato bene informato». Per un capo di governo è sempre una dichiarazione pericolosa e rivela debolezza. Primo per non aver saputo scegliere chi doveva informarlo. Secondo per il tentativo implicito di voler scaricare su altri almeno parte delle responsabilità per qualcosa che non ha funzionato.
L'AMMISSIONE DI OBAMA. È quanto ha fatto Barack Obama domenica sera, intervistato dalla trasmissione 60 Minutes da Steve Kroft, ricordando come il generale Jim Clapper, al vertice della comunità di intelligence americana (Director of National Intelligence), abbia ammesso di avere sottovalutato non le capacità, ma la volontà immediata di combattere degli estremisti islamici del cosiddetto Califfato, che tra Iraq e Siria condizionano ormai un territorio esteso quasi quanto la Gran Bretagna, e sopravvalutato la capacità dell’esercito iracheno di contrastarli.
Le smentite non si sono fatte attendere. Ma Obama deve alleggerire una posizione piuttosto difficile, avendo sbagliato parecchio nella lettura della realtà mediorientale.
ERRORI STRATEGICI. La politica di George W. Bush in Medio Oriente fu una reazione, avventata, ai terribili attentati dell’11 Settembre e Obama ha reagito a questa reazione andando in senso contrario, ritirando le truppe troppo presto dall’Iraq, dichiarando «missione compiuta» (21 ottobre 2011) con un occhio più al calendario elettorale di casa che alla realtà a Baghdad e altrove, e rifiutando per mesi di ascoltare messaggi di allarme che la sua intelligence, civile e militare, non gli ha fatto mancare.
GLI AVVERTIMENTI DELL'INTELLIGENCE. Già a gennaio e febbraio i capi dell’Intelligence americana, tra cui lo stesso Clapper, dicevano al Congresso che i fanatici dell’Isis erano pronti. Parlando all’annuale audizione delle Commissioni congiunte di Intelligence di Camera e Senato il generale Michael Flynn, allora capo della Dia, disse che nel 2014 l’Isis avrebbe cercato di prendere il controllo di vasti territori in Iraq e Siria.
James Jeffrey, ex ambasciatore a Baghdad (2010-2012) ha detto che gli uomini sul campo lanciarono l’allarme per tempo e che dopo la caduta di Fallujah il 5 gennaio 2014 non c’erano più dubbi sulla strategia aggressiva e dilagante dell’Isis.
ESERCITO IRACHENO NON PREPARATO. C’è un intero anno di rapporti in cui Cia e Dia, l’intelligence militare, dicono che l’esercito iracheno è impari al compito. Ma la Casa Bianca è stata lenta e indecisa, per varie settimane, pure dopo la caduta di Mosul, a giugno.
La linea, mentre si cercavano di dissipare le nebbie, è stata quella di definire il tutto «imprevedibile». Poi è arrivata, annunciata dal presidente in forma definitiva il 10 settembre con il discorso alla nazione, l’inevitabile scelta: i fanatici capiscono solo la forza e la forza avranno.
LA NUOVA DOTTRINA OBAMA. I video con l’uccisione degli ostaggi americani e occidentali hanno profondamente colpito l’opinione pubblica. E il presidente ha definito una nuova «dottrina Obama», interventista. Chiarendo giustamente che l’America e i suoi alleati non accettano i termini di una guerra di religione, non combattono il mondo islamico e i molti che in quel mondo sono per la tolleranza e la convivenza, ma il fanatismo violento e assassino. Il 17 settembre la Camera ha finanziato l’operazione. Con il 23 settembre sono partite le nuove massicce missioni aeree, estese anche al territorio siriano.
Ma dall’inizio della sua presidenza Obama si muoveva seguendo un’altra dottrina col tempo ben chiarita in interventi e interviste, arrivata a definire fino a ieri la politica estera e che ha due passaggi importanti nel 2009 e nel 2011.
LA LINEA DEL DISCORSO DE IL CAIRO. Nel giugno 2009 il discorso del Cairo con cui invocava «un nuovo inizio» ai rapporti tra Stati Uniti e mondo islamico e tendeva la mano verso il dialogo. Con tutto quanto è seguito, compreso l’abbandono del presidente egiziano Hosni Mubarak, la fine della collaborazione con i militari che avevano scacciato il suo successore vicino agli islamici, per poi riallacciare, dopo Mosul, gli stretti vecchi legami con i generali egiziani. E nell'ottobre 2011, all’inizio cioè della campagna elettorale per il voto del novembre dell’anno successivo, il ritiro definitivo - e prematuro - delle truppe dall’Iraq, dove restava però con 16 mila addetti la, di gran lunga, più nutrita ambasciata americana del mondo.
ADDIO ALLA TERZA VIA. La prima dottrina Obama la si ritrova, per esempio in una inchiesta-intervista uscita a gennaio 2014 sul New Yorker, rivista amica del presidente. Obama diceva di voler riordinare categorie ben definite della politica estera. Rinunciare, come spiegava uno dei più stretti assistenti per la politica estera, Ben Rhodes, a una visione «idealistica» che presupponeva il costante intervento militare e adottare una visione «realistica» diversa però dal realismo di vecchio stampo europeo o Realpolitik, cioè l'equilibrio delle forze, da sempre dettato da Henry Kissinger e da Brent Scowcroft e che implica ugualmente a tratti l’intervento militare.
Il realismo obamiano era basato su un concetto dei limiti della potenza americana, sull’impossibilità di modellare nazioni che devono regolarsi da sole. E su una gerarchia, inevitabilmente precaria per la superpotenza decisa a rimanere tale, che mette al primo posto la politica interna, ilnation building at home.
LO SCHIAFFO DEL CALIFFATO. Era una scelta per vari aspetti saggia. Ma solo quando praticabile. Il Califfato dimostra che non sempre può esserlo.
Per l’Europa, che dopo 70 anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale non ha ancora una sua politica di difesa se non all’ombra americana della Nato, resta un insegnamento per il futuro: per quanto vitale, per quanto comoda, la protezione americana non può essere considerata come scontata in eterno in aree di crisi assai più vicine ai confini europei che a quelli americani.

(Lettera 43)

lunedì 29 settembre 2014

Che cos’è Hong Kong...





La storia speciale della regione speciale della Cina, dal suo passato britannico a Bruce Lee, ora che se ne riparla per le grandi manifestazioni contro il governo cinese


Da tre giorni a Hong Kong ci sono grandi manifestazioni, con migliaia di persone che hanno occupato piazze e strade per chiedere libere elezioni al governo cinese. Ci sono stati scontri tra manifestanti e polizia locale con il ferimento di una quarantina di persone nel fine settimana, mentre gli agenti hanno fermato in tutto circa 150 persone. Lunedì le manifestazioni sono proseguite causando la chiusura di diverse banche, di uffici e delle scuole nelle aree centrali di Hong Kong, e si prevedono nuove grandi manifestazioni in settimana. Le proteste sono la conseguenza di anni di limitazioni democratiche nella regione speciale della Cina, che derivano da una storia molto complicata che risale ai tempi coloniali del diciannovesimo secolo.
Il periodo britannico
La Cina perse il controllo su Hong Kong in tempi relativamente recenti, dopo la prima Guerra dell’Oppio, che fu combattuta tra il 1839 e il 1842. In quegli anni il gigantesco impero cinese era devastato dalla corruzione e dal malgoverno, impoverito dopo secoli di ricchezza e pesantemente costretto tra le volontà di espansione militare e commerciale dei paesi europei, con in testa l’impero britannico. Il Trattato di Nanchino mise fine alla guerra: i britannici ottennero l’apertura al commercio di cinque porti della Cina, compreso quello di Shanghai, senza dovere più fare riferimento a intermediari per trattare con i mercanti cinesi. L’accordo prevedeva inoltre che Hong Kong, una piccola isoletta nel delta del fiume delle Perle, nella Cina meridionale, passasse sotto il controllo del Regno Unito.
Hong Kong
Negli anni seguenti, grazie ad altri trattati di pace, la colonia britannica si espanse e nel 1898 la Cina cedette i Nuovi Territori: quasi mille chilometri quadrati di isole e terraferma. Si trattava però di un prestito della durata di 99 anni. A parte il periodo della Seconda guerra mondiale, Hong Kong rimase per decenni sotto il controllo del Regno Unito, instaurando una propria economia, molto più aperta al capitalismo rispetto a quella del sistema cinese.
La restituzione
Non è del tutto chiaro come si avviarono i colloqui tra il Regno Unito e la Cina per la restituzione di Hong Kong. Secondo alcuni storici, furono proprio le questioni di rinnovo di questo prestito a spingere l’allora governatore di Hong Kong Murray MacLehose, uno scozzese che era già stato ambasciatore a Pechino, a porre una domanda sul futuro di Hong Kong durante una visita ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese. La domanda fu posta, nel marzo 1979, direttamente al leader supremo Deng Xiaoping. Secondo alcuni, Deng fu colto impreparato dalla questione e espresse la necessità del ritorno di Hong Kong alla Cina, al termine del prestito.
Il problema doveva comunque essere risolto, per evitare incertezze nei contratti e negli accordi commerciali. Nel 1982 il governo di Margaret Thatcher mandò in Cina l’ex primo ministro Edward Heath, con l’incarico di avviare negoziati con la Cina su Hong Kong. Deng disse chiaramente che la questione doveva essere chiarita con negoziati ufficiali. La speranza del governo Thatcher era riuscire a mantenere il governo britannico sul territorio: ma la Cina rifiutò categoricamente questa opzione, non solo per i Nuovi Territori, ma anche per l’isola e per la penisola di Kowloon.
La Cina restò intransigente: disse di non riconoscere i trattati con cui gli altri due territori erano stati ceduti “in perpetuo”, definendoli “disonesti e disuguali”; aggiunse di riconoscere solo l’amministrazione britannica a Hong Kong ma non la sua sovranità.
Hong Kong
Vista l’impossibilità di mediare, il primo ministro cinese e quello britannico firmarono insieme laDichiarazione Congiunta Sino-Britannica il 19 dicembre 1984, a Pechino. Con questa si stabiliva che tutti i territori di Hong Kong sarebbero tornati a far parte della Cina a partire dal primo luglio 1997, anche se la Cina si impegnava a non instaurare immediatamente il sistema socialista, lasciando invariato il sistema economico e politico della città per almeno 50 anni.
Con una grande cerimonia organizzata il primo luglio 1997, terminarono i 156 anni di dominio coloniale britannico di Hong Kong, che divenne la prima Regione Amministrativa Speciale della Cina. Erano presenti le massime autorità dei due stati: per la Cina era presente il presidente Jiang Zemin, mentre in rappresentanza della regina Elisabetta II era presente il principe Carlo, con il primo ministro Tony Blair e l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, il politico conservatore Chris Patten.
Come funziona Hong Kong oggi
Dal punto di vista amministrativo, Hong Kong è una delle due Regioni Amministrative Speciali della Cina. È una metropoli di quasi sette milioni di abitanti su un’area di 1.100 chilometri quadrati, il che fa della città una delle aree più densamente popolate al mondo.
hong-kong-mappa
Il sistema politico di Hong Kong non è una piena democrazia, ma è comunque molto più libero del rigido monopartitismo cinese. Molti partiti concorrono alle elezioni, ma il capo del governo di Hong Kong (formalmente il Capo dell’Esecutivo) è scelto dal ristretto numero di persone che compongono il Comitato Elettorale. Questo è formato da 1.200 persone, scelte con un meccanismo molto complesso che si basa principalmente sull’assegnazione di un certo numero di rappresentanti a ordini professionali e settori economici della società e sul quale interviene pesantemente il governo cinese. Questo sistema, e la ripartizione tra le varie sezioni, garantisce che i settori più vicini agli interessi cinesi siano sovrarappresentati.
Ma oltre al sistema elettorale, ci sono altre differenze notevoli. Il sistema giudiziario della “città-stato” è indipendente e si basa sulla common law, il principio del diritto consuetudinario tipico dei paesi anglosassoni. La Legge Fondamentale di Hong Kong, scritta dopo il passaggio delle consegne tra Regno Unito e Cina, stabilisce che la città avrà “un alto grado di autonomia” in tutti i campi eccetto le relazioni estere e la difesa.
Hong Kong
Super capitalismo
Grazie alla sua distinzione amministrativa dal resto della Cina, Hong Kong nel periodo britannico e negli anni seguenti ha potuto sviluppare un’economia molto florida, caratterizzata da un capitalismo estremamente libero e dinamico. Il paese, considerato un paradiso fiscale, è da anni indicato come l’economia capitalista più libera al mondo dall’Index of Economic Freedom, classifica realizzata dalWall Street Journal in collaborazione con la conservatrice Heritage Foundation degli Stati Uniti. La borsa di Hong Kong è la settima per grandezza al mondo e molte società negli ultimi anni hanno deciso di quotarsi nei suoi listini, contribuendo al suo successo e alla sua crescita.
Come si vive a Hong Kong
Hong Kong è densamente abitata, soprattutto nell’area della sua metropoli, ma ci sono grandi parchi e riserve naturali, la cui esistenza è in parte dovuta alla conformazione del territorio, collinare e in alcuni punti con rilievi piuttosto scoscesi dove è difficile costruire nuovi edifici. La montagna più alta, il Tai Mo Shan, supera di poco i 950 metri di altitudine.
Il clima è subtropicale senza la presenza di una stagione secca e con livelli di umidità che raggiungono picchi piuttosto alti. Per tipologia è simile al clima che si ha nella Pianura padana in Italia, seppure con inverni più miti e raramente sotto zero. Queste condizioni e l’alta densità abitativa contribuiscono al problema dell’inquinamento dell’aria, che in alcuni periodi dell’anno è praticamente irrespirabile. Le cose sono migliorate negli ultimi anni grazie a politiche ambientali più rigide, e all’utilizzo di tecnologie che permettono di ridurre le emissioni.
Hong Kong
Il sistema dei trasporti pubblici di Hong Kong è probabilmente uno dei migliori al mondo. Si stima che il 90 per cento degli spostamenti giornalieri, circa 11 milioni, siano effettuati attraverso i trasporti pubblici. Il sistema su rotaia è integrato tra trasporto locale e metropolitano, con una rete di oltre 150 stazioni nelle quali transitano ogni giorno 3,5 milioni di persone. A queste si aggiungono oltre 700 linee di autobus e i trasporti via traghetto.
Popolazione e cultura
Degli oltre 7 milioni di persone che vivono a Hong Kong, circa il 94 per cento degli abitanti è di origini cinesi; il restante 6 per cento è composto da persone provenienti da diverse parti del mondo, a partire da altri paesi orientali come Vietnam e Nepal, e naturalmente da britannici. L’aspettativa di vita è di 79 anni per gli uomini e di 85 anni per le donne, tra le più alte al mondo. I cinesi della Cina continentale non hanno il diritto di risiedere a Hong Kong e non possono nemmeno muoversi liberamente entro i suoi confini. Per farlo devono ottenere un particolare permesso, paragonabile a un visto. I flussi di cinesi continentali sono calmierati, ma costanti, e riguardano annualmente circa 45mila persone, che contribuiscono al progressivo aumento della popolazione.
Dal punto di vista culturale, Hong Kong è diventata un interessante misto tra Oriente e Occidente, in seguito al suo lungo periodo come colonia britannica. Le rispettive tradizioni non si sono prettamente mescolate, ma si sono comunque sfumate a vicenda e per molti aspetti Hong Kong ricorda le grandi città del Giappone. Per strada piccoli ristoranti tradizionali si alternano a fast food delle più grandi multinazionali internazionali, e qualcosa di analogo avviene per musica e film. A Hong Kong tra gli anni Sessanta e i Settanta è nato il genere dei film sulle arti marziali, che ha reso famosi in tutto il mondo attori come Bruce Lee e Jackie Chan. Le televisioni via cavo offrono cataloghi con numerosi film e serie tv occidentali, prodotte soprattutto negli Stati Uniti.
Nel 2005 è stato inaugurato l’Hong Kong Disneyland, il primo parco divertimenti Disney in Cina, di proprietà per metà della società statunitense e per metà dello stesso governo di Hong Kong.
Hong Kong
Crisi e gabbie
Negli ultimi anni però la crisi finanziaria e alcune decisioni del governo locale hanno determinato un sensibile impoverimento dei suoi cittadini. Il settore immobiliare ha patito più di altri le conseguenze della crisi, con un aumento significativo dei prezzi delle case. Molte persone sono state costrette a trasferirsi in appartamenti più piccoli o più vecchi o anche in fabbriche dismesse, aggravando un fenomeno che comunque esisteva già da decenni. Tra le sistemazioni più impressionanti ci sono alcuni appartamenti fatiscenti nel quartiere operaio di West Kowloon, nel distretto di Yuam Tsim Mong, allestiti con delle gabbie di rete metallica di circa 1,5 metri quadrati posizionate una sopra all’altra. Ogni appartamento arriva a contenere anche 20 gabbie, che hanno costi diversi a seconda della loro posizione. Quelle appoggiate a terra sono solitamente le più costose, perché ci si può quasi stare in piedi.
Hong Kong
Le proteste
Le migliaia di manifestanti che in questi giorni stanno occupando le strade di Hong Kong chiedono maggiori aperture democratiche e autonomie, con il superamento delle pesanti influenze da parte del governo centrale cinese per quanto riguarda l’elezione dei suoi amministratori locali. Chiedono inoltre che l’attuale governatore Leung Chun-ying, ritenuto troppo vicino al governo centrale, si dimetta. Le elezioni sono previste per il prossimo 2017, ma secondo i manifestanti i meccanismi di selezione dei candidati che lasciano piena discrezionalità al governo cinese non permetteranno di eleggere democraticamente i loro rappresentanti.
Lo scorso giugno il movimento locale Occupy Central aveva organizzato un referendum, non ufficiale, per chiedere elezioni libere. Ora è la principale organizzazione che coordina le proteste, che si sono estese a parti più ampie della popolazione, che guardano con curiosità alle iniziative del movimento e alla possibilità del cambiamento. Anche se ci sono stati alcuni scontri, nel complesso le manifestazioni sono pacifiche e la polizia locale non ha usato più di tanto la forza. A Hong Kong è presente una guarnigione dell’Esercito popolare di liberazione che conta circa 6mila soldati e ha sostanzialmente incarichi di difesa dell’isola. Nel fine settimana sono circolate voci circa un suo possibile coinvolgimento per reprimere le proteste, condizione smentita dal governo centrale e da quello locale. Il governo di Pechino ha infatti ripetuto più volte di confidare nel governatore per risolvere la situazione, senza violenze.
(Il Post)