domenica 31 agosto 2014

Isis, cinque falsi miti sui jihadisti È creduto un gruppo di folli. Affiliato ad al Qaeda. E formato solo dai ribelli siriani. Le credenze errate sui miliziani neri....



Di Isis ormai si parla tutti i giorni. C'è paura di attentati terroristici per mano del gruppo jihadista anche in Europa. Si teme che arruolino miliziani anche in Italia e l'Onu ha appena lanciato l'ennesimo allarme sul fatto che il movimento recluterebbe persino bambini.
Di sicuro quella jihadista è un’organizzazione molto particolare: definisce se stesso come «Stato» e non come «gruppo».
METODI CRUENTI. Usa metodi così violenti che persino al Qaeda ne ha preso le distanze. Controlla, tra Iraq e Siria, un territorio che per estensione ha quasi le dimensioni del Belgio e teorizza una guerra interna all'Islam e contro l'Occidente per raggiungere il proprio obiettivo: istituire un Califfato.
Nonostante queste informazioni, che ormai hanno fatto il giro del mondo, sullo Stato islamico dell'Iraq e del Levante restano ancora tanti dubbi e molti falsi miti che il magazine Usa Vox.comha cercato di spiegare. Per provare a sfatarli e aiutare a comprendere cosa ci sia davvero dietro ai 'nuovi' jihadisti. 

1. Gruppo folle e irrazionale: falso, sono organizzati e strategici

  •  Una mappa che mostra il controllo dell'Isis in Iraq.
Se si vuole comprendere lo Stato islamico, meglio conosciuto come Isis, la prima cosa che bisogna sapere su di loro è che non si tratta di un movimento di 'pazzi', come spesso viene definito.
Aderenti a una ideologia medievale violenta e omicida, certo. Ma non folle. Per comprenderlo bisogna conoscere la storia dell'ascesa del movimento in Iraq e Siria.
Dalla metà degli Anni 2000 fino a oggi, l’Isis ha sempre avuto un chiaro obiettivo: stabilire un Califfato che fosse basato su un’interpretazione estremista della legge islamica.
VIOLENZA MAI CASUALE. Per farlo ha messo in atto diverse strategie, a partire dalla capacità di sfruttare il malcontento popolare tra non estremisti sunniti iracheni contro il loro governo sciita.
Ovviamente poi le tattiche si sono evolute nel corso del tempo dopo sconfitte militari (come quella del 2008 in Iraq) e nuove opportunità (la guerra civile in Siria). Secondo l’esperto in Scienze politiche dell’università di Yale Stathis Kalyvas, in termini prettamente strategici, l’Isis si comporta come qualsiasi altro gruppo militare, senza mostrare «eccessivi 'picchi islamisti'».
La violenza non è casuale ma focalizzata a indebolire i nemici e a rafforzare il controllo sul territorio, in parte terrorizzando la gente che il movimento desidera controllare.

2. L'Islam è l'Isis: falso, non tutti amano i radicalismi

  • L'Isis si è diffuso prima in Iraq e in Siria.
Spesso si legge che l’Isis ha ottenuto un certo supporto fra alcuni musulmani sunniti in Iraq o in Siria.
Da una parte è vero, però, questo fa sì che spesso si associ l’Islam all’Isis. In realtà non è così perché il potere del gruppo si fonda sulla politica e non sulla religione.
In realtà la maggior parte dei musulmani rifiuta la visione radicale dell’Islam sostenuta dallo Stato islamico e i jihadisti sono temuti e odiati in molti Paesi arabi.
Un esempio su tutti: una rivolta iniziata nel 2006 fra i sunniti in Iraq (anche l’Isis ha una matrice sunnita) ha giocato un ruolo fondamentale nello sconfiggere al Qaeda nel Paese.
Una rivolta che è stata ispirata soprattutto dal tentativo del gruppo di imporre la propria visione islamica ai musulmani, visione molto lontana dall’effettiva tradizione.
L’unica motivazione del supporto sunnita all’Isis può essere ricondotta a fattori politici: sia la Siria sia l’Iraq, infatti, hanno un governo sciita dove i musulmani sunniti non si sentono rappresentati e dove, anzi, la loro voce viene spesso messa a tacere.

3. È parte integrante di al Qaeda: falso, è un movimento antagonista

  • Persino al Qaeda considera l'Isis troppo violento.
Uno dei punti chiave da sapere oggi per comprendere l’Isis è che è un movimento antagonista di al Qaeda, non un alleato. In realtà un legame fra i due gruppi esisteva in Iraq, ma poi l'Isis ha deciso di separarsi dai qaedisti nel febbraio 2014 perché non disposto a sottostare alle regole dei quartier generali di al Qaeda che chiedevano, fra le altre cose, di ridurre le violenze sui civile.
Insomma, l’Isis era troppo violento anche per al Qaeda che per anni è stato il movimento leader (e unico) dei jihadisti nel mondo. Poi a un certo punto i jihadisti hanno combattuto apertamente anche con Jabaht al-Nusra che è la filiale siriana di al Qaeda ed è riuscita a prendere il controllo di molti più territori di quelli che restano attualmente in mano ai qaedisti in Siria. 

4. Sono ribelli siriani: falso, combattenti arrivati anche dall'estero

  • Miliziani Isis sul campo.
È vero che l’Isis si è opposto duramente al governo di Bashar al Assad in Siria, ma non è corretto definirlo un «gruppo di ribelli siriani» perché questa definizione rischia di offuscare due aspetti chiave del movimento estremista.
Prima di tutto perché si tratta di un gruppo transnazionale in cui molti dei combattenti arriva dall’estero motivato dai pricipali obiettivi della jihad. Secondo perché, in fondo, Assad e l'Isis sono state d'aiuto l'uno per l'altro.
Certo, da una parte la guerra civile in Siria ha permesso al movimento dello Stato islamico di ottenere una certa visibilità, oltre a un supporto finanziario da alcuni Stati del Golfo e da donatori privati intenzionati a sbarazzarsi di Assad.
Inoltre l’Isis ha reclutato tanti suoi militari fra le fila dei ribelli siriani, ma ci sono anche dei legami fra i jihadisti e lo stesso Assad che ha sfruttato il movimento per creare una forte divisione fra gli anti-regime che hanno indebolito così progressivamente la loro offensiva.

5. Rafforzata da Maliki: falso, la rabbia sunnita ha radici più profonde

  • L'Isis ha intercettato la rabbia sunnita nei confronti del governo iracheno.
Sono tante le teorie che concordano sul fatto che il primo ministro dell'Iraq, Nouri al Maliki, sia l'unico o comunque il principale responsabile della rinascita dell'Isis nel 2014.
Da una parte è vero che la politica di Maliki ha permesso la nascita dell'Isis: ha utilizzato le leggi irachene anti-terrorismo per imprigionare i disertori sunniti, ha promulgato leggi che hanno impedito a ufficiali dell’era Saddam di mantenere certi ruoli con il chiaro obiettivo di estromettere i sunniti dalle più alte cariche militari del Paese. Ha arrestato pacifici protestanti sunniti e si è allineato a delle milizie sciite non istituzionali spingendo in questo modo l'ala sunnita contro il governo centrale iracheno e, quindi, fra le braccia dell’Isis.
Questo, però, non basta a dare ad al Maliki tutte le responsabilità. Per una semplice ragione: la rabbia sunnita nei confronti del governo centrale iracheno ha radici ben più profonde e che vanno bel al di là della politica portata avanti da Maliki stesso.
Per fare un esempio molti sunniti credono erroneamente di essere la più larga maggioranza demografica in Iraq. Questa convinzione si è diffusa durante il periodo di Saddam per giustificare la legge sulla minoranza sunnita e ha portato ora i sunniti a vedere come ingiusto qualsiasi governo di cui non siano a capo.
Lunedì, 01 Settembre 2014
(Lettera 43)

Ma il vero pericolo è la rete...





di Khalid Chaouki, deputato Pd


Nessuno potrebbe sostenere il contrario. Pensare solo che tra i tagliatori di teste in Siria e Iraq attualmente ci sarebbe un numero imprecisato di giovani europei, tra cui una quarantina almeno di «italiani», ci spaventa molto. Dopo gli anni difficili del post 11 settembre 2001, siamo di fronte a un’ennesima guerra contro il terrorismo di matrice islamica che si è materializzato, sembrerebbe all’insaputa di tutti, questa volta a pochi passi da noi. Il cosiddetto «Califfato islamico» non si trova nel lontano Afghanistan ma in Iraq e in Siria con già poco timide imitazioni nella vicinissima Libia. Un nuovo esercito, che rispetto ad Al Qaida, riesce a pescare ancora meglio tra le nuove generazioni dell’Islam europeo e statunitense, una generazione di figli di immigrati e convertiti che hanno fallito il loro appuntamento con la piena integrazione nelle loro società di nascita o adozione.
Da giovane musulmano, impegnato in prima fila nella lotta al’integralismo e alla lotta contro le gravissime ambiguità tra alcune organizzazioni islamiche in passato, posso affermare senza esitazione che oggi le moschee non sono più il terminale più importante per reclutare sulla via del «Califfato» i giovani europei. Le moschee in Italia sono da anni sotto un attento controllo da parte delle nostre forze di sicurezza, in una strettissima collaborazione con i gestori di questi luoghi e con i massimi rappresentanti delle organizzazioni islamiche nazionali.
Grazie a questa intelligente strategia, controllo e collaborazione, in Italia si è riusciti finora a risparmiare al nostro Paese casi di attentati terroristici in stile Madrid e anche il proliferare di moschee di chiaro stampo fondamentalista stile Londra. La via italiana alla lotta contro l’estremismo islamico ha puntato sulla valorizzazione delle leadership islamiche moderate attraverso l’importante lavoro avviato anni orsono dal lungimirante ministro dell’Interno Beppe Pisanu e proseguito poi con i ministri Amato e Maroni. Oggi i nuovi centri di reclutamento passano direttamente via Youtube, Facebook e Twitter non più filtrati da Imam o reclutatori che falsificavano documenti a Napoli o Milano. Non abbiamo più Bin Laden, che dalle caverne di Tora Bora, implicava i musulmani ad aggregarsi al Jihad, ma europei che con accento londinese mostrano in video la loro nuova patria nel cuore del “Califfato”. Servirà quindi modernizzare le nostre leggi contro il terrorismo, reclutamento e incitamento anche online, ma soprattutto stringere una rinnovata alleanza con l’islam italiano per avere solo moschee “certificate”, case di vetro senza alcuna ombra ambiguità rispetto alle fonti di finanziamento e alla competenza degli imam.

Ebola, rilevato primo caso in Senagal. Cresce il numero di vittime...





Di Consiglia Grande
. Il Senegal ha confermato il primo caso di Ebola rilevato nel paese. Il Ministro della Salute Awa Marie Coll Seck ha dichiarato che il malato è un cittadino della Guinea, dove il morbo su è gia diffuso a marzo.
Si tratta di uno stupente universitario, messo in quarantena in un ospedale di Dakar. Ha affermato di essere stato a contatto con i malati di Ebola, quando si trovava in Guinea.
Ma d’altronde, nei giorni scorsi, una squadra epidemiologica del Guinea aveva dichiarato di aver perso le tracce di una persona infetta, mettendo in allerta il Senegal. E il ragazzo contagiato in quarantena corrisponde all’infettato di cui si erano smaltite le tracce.
Negli ultimi sette giorni sono stati registrati oltre 500 nuovi casi di Ebola in Africa occidentale. Le zone più a rischio, secondo quanto riportato dall’organizzazione mondiale della sanità, sono la Liberia, la Guinea e la Sierra Leone. Al momento i morti dell’Ebola sono 1.552, registrati in Guinea, Liberia, Nigeria e Sierra Leone.

Non addestrare chi bombarda....



Dalla Sardegna a Ferrara crescono le mobilitazioni contro le manovre della Marina israeliana al largo dell’Isola e contro la visita preannunciata a Ferrara del premier di Tel Aviv

di Checchino Antonini



Non addestrare chi bombarda, non accogliere con tutti gli onori chi ordina le stragi di civili, fa costruire i muri e rende impossibile la vita ai sopravvissuti. Ossia Netanyahu. Dalla Sardegna a Ferrara si moltiplicano le mobilitazioni per la Palestina e contro la guerra permanente cui è sottoposta da parte di Israele. E se nell’Isola si profilano manovre di addestramento della marina israeliana (l’Italia del Pd è il primo fornitore di armi a Israele), nella città estense potrebbe essere ricevuto, l’anno prossimo, il controverso premier di Tel Aviv. Tra le reti no war e di solidarietà con la Palestina continua il dibattito sull’opportunità di una mobilitazione nazionale.
Intanto, domani, 30 Agosto, Cagliari sarà teatro di un’assemblea internazionale per bloccare le esercitazioni militari israeliane in Sardegna, per il sostegno alle campagne di boicottaggio della BDS e per il loro rilancio a livello locale. Il 13 settembre, alle 16:30, il poligono di Capo Frasca vedrà una manifestazione nazionale contro l’occupazione militare e contro le manovre di guerra d’Israele in Sardegna.
Da Ferrara riceviamo il testo di una richiesta inoltrata dal “Coordiamento Ferrara per la Palestina” a Sindaco, Direttore del Meis e Ministro della Cultura per chiedere il ritiro dell’invito al premier israeliano all’inaugurazione del Meis – Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – prevista nel 2015. «Nella nostra intenzione – scrivono i promotori – c’è il rendere questa campagna nazionale, in modo tale da provare ad esercitare una forma di pressione il più ampia per impedire quest’ennesima vetrina proposta ad Israele. Per questo vi chiediamo di far girare l’appello fra tutti i vostri contatti, di sottoscriverlo e farlo sotoscrivere ai singoli ed alle associazioni del vostro territorio. Non è molto, ma è un tentativo di chiedere alla politica di smettere di essere connivente con chi sta massacrando un popolo e di schierarsi». Per i promotori il premier israeliano dovrebbe essere dichiarato “non gradito” per le sue responsabilità nell’occupazione militare del territorio Palestinese di Gaza ed i bombardamenti da esso subiti; per la violazione della IV Convenzione di Ginevra (“Protezione delle persone civili in tempo di guerra”). Tutte azioni condannate dal Comitato Internazionale della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, in occasione dell’attacco, il 26 luglio 2014, ad un’ambulanza a 200 metri da un ospedale, che ha causato la morte di due persone del personale medico ed il ferimento di altre 3. Netanyahu è il responsabile politico dell’operazione “piombo fuso” avvenuta a Gaza nel 2008, come provato dalla Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite: un attacco che “non fosse solo teso ad uccidere, ma anche a diffondere terrore alla popolazione civile”. Viene anche ricordata la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja che ha giudicato il Muro in Cisgiordania “contrario al diritto internazionale” e l’autorizzazione dei governi israeliani alla costruzione, sempre in violazione della IV convenzione di Ginevra, di insediamenti coloniali nei Territori Occupati. Lo Stato di Israele ignora sistematicamente tutte le risoluzioni dell’ONU che ne condannano le azioni e l’operato, perché accogliere il suo premier per un’operazione importante come l’inaugurazione del museo della Shoah?
I fermenti sardi prendono spunto da un appello che parte da Gaza. Una foto ritrae un ragazzo davanti a un cumulo di macerie, tiene in mano un cartello con scritto, “Italia, non addestrare i piloti che ci bombardano”. Un gruppo di bambini ne sorregge un altro: “Addestrare i piloti israeliani = uccidere bambini palestinesi”. Quasi 50 i foto-appelli che sono arrivati dalla Striscia, e diffusi dalla campagna Bds, per chiedere al governo italiano di annullare le esercitazioni militari previste per settembre in Sardegna, che, secondo un documento del Ministero della Difesa, prevedono la partecipazione dell’aeronautica israeliana. Dopo oltre sei settimane di bombardamenti israeliani, che conta oltre 2000 morti, tra cui quasi 500 bambini, e oltre 10.000 feriti, e che hanno devastato gran parte delle infrastrutture di Gaza, compresi ospedali, scuole, case, impianti e fabbriche, i giovani di Gaza usano la loro creatività per mandare un messaggio all’Italia, un messaggio che non poteva essere più chiaro: Non sostenere i responsabili della distruzione del nostro futuro.
Sugli altri cartelli ci sono appelli per un embargo militare a Israele – l’Italia è infatti il primo fornitore europeo di armi a Israele – e per la sospensione del accordo di cooperazione militare tra Roma e Tel Aviv, che, tra l’altro, comprende le esercitazioni militari congiunte che si svolgono da anni in Sardegna.

I progetti dell'Isis per una bomba alla peste bubbonica. Esclusiva di Foreign Policy...





 
Inviato di guerra, la Repubblica

Gli uomini dell'Isis stanno lavorando alla creazione di un'arma batteriologica. Un ceppo di peste bubbonica da sviluppare e poi stoccare in vista di un attacco che sarebbe molto più facile da realizzare e procurerebbe danni devastanti sulle persone, ben più ampi di un attentato suicida. Lo svela l'ultimo numero di Foreign policy, la rivista di Politica internazionale statunitense di proprietà del Washington post.
Due redattori del bimestrale hanno incontrato il comandante di un gruppo ribelle siriano moderato nel Nord del paese. Si chiama Abu Ali e nel febbraio scorso guidava un battaglione che si è scontrato per giorni con una formazione degli jihadisti, adesso alla guida del nuovo Stato islamico (Is), il Califfato fondato da Abu Bakr al-Bagdadi tra Aleppo e Ramadi in Iraq. I miliziani dell'Isis, racconta il comandante, erano rintanati in un edificio. Per una settimana hanno resistito. Poi sono stati costretti a fuggire lasciandosi dietro armi e munizioni. In una delle stanze, su un tavolo, c'era anche un lap top Dell e un cavo di alimentazione.
"L'ho subito preso e l'ho aperto", racconta Abu Ali. "Pensavo che fosse rotto o guasto. In realtà era perfettamente funzionante. Ho cercato tra le risorse ma erano vuote. L'ho comunque conservato e portato via. Con alcuni compagni più esperti di informatica abbiamo iniziato a navigare sull'hard disk e senza neanche ricorrere ad una password siamo riusciti ad entrare e scovare una montagna di file: ce n'erano 35.347 suddivisi in 2.367 cartelle".
I due giornalisti li hanno copiati su un disco rigido e li hanno portati fuori dal Paese. I file racchiudevano documenti in francese, inglese e arabo. La maggioranza raccoglieva materiale ideologico, discorsi religiosi, sermoni di imam ma anche manuali su come costruire bombe, rubare automobili, lezioni su come travestirsi per evitare di essere arrestati durante gli spostamenti da una città all'altra e viaggi all'estero.
Per decine di ore i due giornalisti hanno scavato nella memoria del pc e alla fine si sono resi conto che tra quel materiale c'erano indicazioni molti più importanti e inquietanti. Molti file contenevano lezioni pratiche per la costruzione di ordigni batteriologici in vista di un potenziale attacco che, se portato a termine, potrebbe avere effetti sconvolgenti in tutto il mondo.
Dagli stessi file, i due colleghi sono riusciti a risalire anche al nome del proprietario del lap top: è un cittadino tunisino, Muhammed S. Una serie di telefonate e di visite in Tunisia hanno consentito di raccogliere altre informazioni sull'identità dello jihadista. Si sa che Muhamed ha studiato chimica e fisica in due università nella zona nord-orientale del Paese nordafricano. La circostanza è stata confermata dalla segreteria dei due atenei che non avevano più notizie sull'uomo dalla fine del 2011.
Ma la conferma più allarmante è venuta da 19 pagine scritte in arabo e conservate tra i file decifrati: ci sono informazioni su come sviluppare armi biologiche e su come armare la peste bubbonica ricavata da animali infetti. "Il vantaggio delle armi biologiche", si legge in quelle pagine, "è che non richiedono grossi investimenti, mentre le perdite umane possono essere enormi".
Negli stesi fogli si spiega anche come testare il virus in sicurezza prima di essere usata in un attacco. "Quando il microbo viene iniettato nei topi, i sintomi dovrebbero iniziare a comparire nel giro di 24 ore". A garanzia dell'uso corretto di un ordigno così letale, lo stesso file racchiude una fatwa in 26 pagine sull'uso delle armi di distruzione di massa. "Se i musulmani non possono sconfiggere i takfir (infedeli) in modo diverso, è consentito di usare armi di distruzione di massa", recita la sentenza religiosa dell'imam saudita jihadista Nasir al-Fahd, attualmente detenuto in Arabia Saudita. "È consentito anche se vengono tutti uccisi e i loro discendenti sono cancellati dalla faccia della terra".
I file scoperti nel pc non dimostrano certo che gli uomini vestiti di nero del Califfato siano in possesso di armi batteriologiche. Anche perché non sarebbe la prima volta che ci provano i combattenti della galassia jiahadista. Ma è una ulteriore prova di un progetto mai tramontato e forse ora, con i mezzi, la forza e i fondi a disposizione, rilanciato grazie al contributo di chimici e fisici accorsi per sostenere il Califfato. A Mosul in Iraq e a Raqqa in Siria, saldamente nella mani dell'Isis, esistono università e laboratori dove si può studiare e lavorare. Assieme ai quadri dell'ex esercito di Saddam che, secondo molte testimonianze, contribuiscono al successo militare dei 30 mila combattenti. Nelle 19 pagine si consiglia anche come agire: "Riempire piccole granate con il virus e poi gettarle in ambienti chiusi. Come metropolitane, stadi, discoteche. Meglio usarle accanto alle prese dell'aria condizionata. Il batterio di espande in pochi minuti e colpisce migliaia di persone".

Gaza, Moni Ovadia: “Io, ebreo, sostengo i diritti palestinesi. Ecco perché”...



"Oltre alle ragioni che lo definiscono, il conflitto israelo-palestinese è importante perché evoca ripetutamente, nella dimensione fantasmatica, lo spettro dell’antisemitismo, quello del suo esito catastrofico, la Shoah, ma anche quello del suo doppio negativo, la vittima che diventa carnefice. I processi di permanente vittimizzazione che si sinergizzano con i complessi di colpa occidentali, legittimano un’'industria dell’Olocausto'. Questa, a mio parere, è una delle derive più allarmanti e ciniche della memoria"




Il conflitto israelo-palestinese è uno dei problemi centrali del nostro tempo sul piano reale ma ancor di più sul piano della percezione simbolica, anche se tutto sommato riguarda un numero limitato di persone rispetto alle moltitudini dei grandi scacchieri incandescenti. Perché è tanto importante? A mio parere perché, oltre alle ragioni fattuali che lo definiscono, evoca ripetutamente nella dimensione fantasmatica, lo spettro dell’antisemitismo, quello del suo esito catastrofico, la Shoah, ma anche quello del suo doppio negativo, la vittima che diventa carnefice. La Shoah non solo ha espresso in sé il male assoluto, ma ha cambiato definitivamente la nostra visione antropologica del mondo e ha sconvolto le categorie del pensiero e del linguaggio. Oggi, la memoria della Shoah entra nel conflitto sul piano dell’immaginario producendo rebound psicopatologici che mettono in scacco non solo il dialogo fra posizioni diverse, ma la possibilità stessa di elaborare un approccio critico senza provocare reazioni isteriche o furiose.

Molti ebrei in Israele e nella diaspora, reagiscono psicologicamente a ogni riflessione severa come se, invece di vivere a Tel Aviv o a Parigi nel 2014, vivessero a Berlino nel 1935. Ora, essendo ebreo anch’io, per dovere di onestà intellettuale è giusto che dichiari la mia posizione perché essa è tutt’altro che neutrale. Sostengo con piena adesione i diritti del popolo Palestinese, non contro Israele, ma perché il loro riconoscimento è, a mio parere, precondizione per ogni trattativa che porti alla pace. Ritengo che la responsabilità principale (non unica) dell’attuale disastro, abbia origine nella cinquantennale occupazione da parte dell’esercito e dell’Autorità israeliana e la relativa illegittima colonizzazione delle terre che appartengono ai palestinesi secondo i decreti della legalità internazionale. Su Gaza, l’“occupazione” è esercitata sempre da parte dell’autorità civile e militare di Israele con un ininterrotto assedio e comporta il totale controllo dell’entrata e uscita delle merci e delle persone, dello spazio aereo, marittimo, delle risorse idriche, energetiche e persino dell’anagrafe. I tunnel, in qualche misura, sono una risposta a questo stato di cose. I missili lanciati contro la popolazione civile di Israele sono atto di guerra illegale secondo le convenzioni internazionali, ma non si può far finta di dimenticare che un assedio è esso stesso atto di guerra.
È stata pratica sistematica degli ultimi governi israeliani il mantenimento dello status quo attraverso la politica dei fatti compiuti e il mantenimento dello status quo impedisce, de facto, ogni altro sbocco come quello della trattativa. Lo dimostra il reiterato nulla di fatto con Abu Mazen che, in cambio della sua super disponibilità a trattare, ha ricevuto solo umiliazioni anche dal finto mediatore statunitense. Ora, la politica dello status quo significa contestualmente il suo peggioramento e l’ineludibile scoppio dei ciclici conflitti con Hamas che terminano con la devastazione di Gaza, una micidiale conta di vittime civili palestinesi e, fortunatamente sul piano umanitario, un esiguo numero di vittime israeliane, soprattutto militari. Ciò non significa che non siano vittime e che la loro morte non sia un lutto.
Gli zeloti pro israeliani quando ascoltano o leggono queste mie opinioni critiche, reagiscono immancabilmente con insulti, maledizioni e invettive. Il genere è: “Sei un rinnegato, nemico del popolo ebraico, ebreo antisemita o ebreo che odia se stesso”. La critica da parte di un ebreo della diaspora alla politica di governi israeliani può essere considerata tradimento, antisemitismo od odio verso se stessi solo se collocata nel quadro di un’identificazione nazionalista di ebreo, israeliano, popolo ebraico, popolo d’Israele, Stato d’Israele, suo governo e “terra promessa”. Ma se qualcuno osa fare notare, da posizioni critiche, tale pericolosa identificazione, ecco arrivare addosso all’incauto le accuse infamanti di antisemita o antisionista, che, per molti “amici di Israele” – anche persone di indiscutibile livello culturale –, sono la stessa cosa. Il carattere fantasmatico della percezione della critica come minaccia innesca irrazionali reazioni furiose che producono alluvioni di tweet, di email rivolte agli organi di stampa e di esternazioni su Facebook dove il diritto all’incontinenza mentale è garantita dell’indipendenza della Rete.
L’ossessione della nuova Shoah dietro la porta scatena processi di permanente vittimizzazione che si sinergizzano con i complessi di colpa occidentali, legittimando un’“industria dell’Olocausto” che fa un uso strumentale e ricattatorio della memoria dell’immane catastrofe per fini di propaganda, come bene spiega un saggio fondamentale di Norman Finkielstein, uno scrittore ebreo statunitense. Questa, a mio parere, è una delle derive più allarmanti e ciniche della memoria stessa a cui si prestano non pochi politici europei reazionari o ex-post fascisti, magari facendosi intervistare all’uscita da una visita al memoriale di un lager nazista per dichiarare: “Mi sento israeliano!”. Questo è un modo per trarre “profitto” dall’orrore a vantaggio degli eredi delle classi politiche europee che non si opposero allora al nazismo e all’antisemitismo e oggi lasciano sguazzare indisturbati, nell’Europa comunitaria, neonazisti di ogni risma. L’infame Europa del mainstream delle sue classi dirigenti conservatrici allora stette a guardare lo sporco lavoro dei nazisti collaborando o, nel migliore dei casi, rimanendo indifferenti. Dopo la guerra questi signori hanno progressivamente trattato “il problema ebraico” “esportandolo” con piglio colonialista in medioriente. Oggi cercano credibilità e verginità israelianizzando tout court l’ebreo con una mortificante omologazione.
A questa operazione si prestano purtroppo le dirigenze della gran parte delle istituzioni ebraiche, come ha dimostrato il caso della cantante Noa. L’artista israeliana doveva tenere un concerto aMilano organizzato dall’Adei Wizo, un’organizzazione femminile ebraica. Ma Noa, per il solo fatto di avere espresso l’opinione che la colpa dell’ultimo conflitto di Gaza era degli estremisti delle due parti, si è vista cancellare il concerto. Questo episodio dimostra che neppure una dichiarazione equilibrata, neanche se fatta da una cittadina israeliana, sia accettabile per chi vuole omologare l’ebreo all’israeliano, salvo poi infuriarsi indignato con chi smaschera l’intento. Dall’altra parte, ultras “filopalestinesi” si esercitano nella gratificante impresa di fare di Auschwitz, del nazismo e della svastica, oggetti contundenti da scagliare contro l’ebreo in Israele e spesso contro l’ebreo tout court, ma soprattutto contro il vagheggiato ebreo onnipotente della mitica lobby ebraica. L’intento è quello di dimostrare che Israele è come la Germania di Hitler e che ebrei si comportano come SS. Sotto sotto c’è la vocazione impossibile e sconcia di pareggiare i conti per neutralizzare il deterrente della Memoria. Ma questa sottocultura pseudopolitica, prima di scandalizzare, colpisce per la sua deprimente rozzezza. Sarebbe facile dimostrare l’assurdità di simili farneticazioni, inoltre finisce sempre per rivelarsi una sorta di boomerang che danneggia la causa palestinese. Tutto ciò poco interessa a chi deve placare il proprio narcisismo militante, inoltre, questo tipo di militanza che si esprime con slogan di “estrema sinistra” e di roghi di bandiere ha inquietanti punti di contatto con quella dei neonazisti che, pur di soddisfare la loro inestinguibile sete di antisemitismo, si iscrivono fra gli ultras filopalestinesi. Per denunciare l’oppressione del popolo palestinese ci sono un linguaggio puntuale e concetti giuridici elaborati dal diritto internazionale. È dissennato proiettare l’immaginario della memoria della Shoah in paragoni inaccettabili. Anche i proclami di antisionismo sono poco sensati, poco centrati e non tengono conto delle articolazioni del fenomeno.
A mio parere, il sionismo in quanto tale si è estinto da un pezzo. Anche di esso sono rimaste proiezioni fantasmatiche mentre nella realtà l’ideologia della destra reazionaria dominante in Israele è un ultranazionalismo del “grande Israele” compromesso con il fanatismo religioso. Del sionismo è rimasto lo spirito dell’equivoco slogan delle origini: “Un popolo senza terra per una terra senza popolo”. Ancora oggi, a distanza di più di un secolo, la destra reazionaria di Netanyahu ha re-imbracciato quella miopia militante che vorrebbe cancellare nei palestinesi lo status di nazione e di popolo. Ma in questi ultimi giorni perfino il falco Bibi, mettendo la mordacchia ai più falchi di lui nel suo governo, ha intuito che nella sanguinosa polveriera mediorientale una tregua “duratura e permanente” con Hamas è più auspicabile che far scempio di civili innocenti. Secondo me, ciò di cui c’è vitale bisogno in Israele è che la sua classe dirigente si armi di coscienza critica e di lungimirante pragmatismo per dismettere vittimizzazione e propaganda e ascoltare anche le critiche più dure come un contributo e non come un pericolo. Certo, una tregua non fa primavera né la fa una manifestazione della fragile opposizione che in giorni recenti è coraggiosamente tornata a mostrarsi in piazza Rabin per fare ascoltare una lingua diversa da quella dello sciovinismo militare. Ma sono barlumi di una possibile alternativa all’asfissia della guerra.

di Moni Ovadia 
Da Il Fatto Quotidiano del 29 Agosto 2014

Esercito Iraq entra ad Amerli: rotto assedio dei jihadisti con aiuto degli Usa...





BAGDAD – L’esercito iracheno è riuscito a rompere l’assedio di Amerli da parte dei jihadisti dell’Isis e rientrare nella città. Iracheni e curdi, supportati dalsostegno areo degli Stati Uniti, sono così riusciti a liberare la città occupata e donne e bambini sono stati portati in salvo con gli elicotteri.
Jassem Hamad, ministro per la Gioventù del governo di Bagdadm ha annunciato:
“Le forze irachene sono riuscite a liberare la città, perlopiù popolata da sciiti turcomanni, dai ribelli”.
A confermare l’ingresso nella città di Amerli dell’esercito è stato anche il sindaco della città. Un’operazione delicata quella delle truppe irachene, che si sono avvalse dell’aiuto dei miliziani sciiti e dei combattenti curdi per rompere un’assedio che durava ormai dal 18 giugno.
Il sito curdo Rudaw ha riportato che gli Stati Uniti hanno fornito il sostegno aereo necessario all’avanzata dell’esercito, colpendo sabato 30 agosto alcuni obiettivi jihadisti vicino alla città, scrive Repubblica:
“I 20mila residenti di Amerli, a maggioranza sciiti turkmeni, sono a corto di cibo, acqua ed elettricità. Nelle ultime ore le forze armate occidentali hanno paracaduto aiuti umanitario sulla città irachena. “Su richiesta del governo iracheno, gli Stati Uniti hanno paracadutato aiuti umanitari sulla città di Amerli”, ha confermato il portavoce del Pentagono, contrammiraglio John Kirby. Gli Usa hanno consegnato gli aiuti insieme da aerei di Australia, Francia e Regno Unito”.
(blitz quotidiano)

Libia, il risiko della spartizione tra tribù Brigate Misurata a Tripoli. Jihadisti a Bengasi. Isis a Derna. E governo deposto a Tobruk. Il mosaico del potere nel Paese....





di Barbara Ciolli

A Tripoli le strade sono di nuovo pulite e non si spara più da qualche giorno.
Acqua e corrente funzionano a intermittenza, come le notizie inviate da chi è rimasto in Libia. Ma i servizi di base sono stati riattivati e si spera che, a breve, riaprano pure gli uffici del governo e dei ministeri.
Nessuno sa dove andrà il Paese, perché nessuna delle milizie in guerra controlla una fetta decisiva di territorio.
SPIRAGLI DI NORMALITÀ. Nella capitale, la fine della battaglia per l'aeroporto ha portato stabilità e i cittadini confidano nel «governo di salvezza» del nuovo premier Omar al Hassi, piazzato al potere manu militari dalla brigata, cosiddetta filo-islamista, di Misurata.
ISLAMICI E GOLPISTI. Solo che Tripoli non è la Libia.
Bengasi, seconda città e centro economico del Paese, è ancora contesa tra le milizie dei Fratelli musulmani e gli estremisti islamici di Ansar al Sharia. Un focolaio di jihadisti pro Isis (lo Stato islamico di Iraq e Siria) è presente a Derna, in Cirenaica. Mentre a Tobruk e al Baida, nella fascia costiera vicina all'Egitto, sono relegati il governo dimissionario e il parlamento estromessi dei filo-golpisti, cosiddetti laici.
RESTANO SOLO GLI ITALIANI. Lettera43.it ha contattato, con difficoltà, l'ambasciata italiana a Tripoli: i collegamenti telefonici non funzionano ancora bene nell'unica sede diplomatica europea non evacuata a fine luglio. Che, soprattutto nelle ultime settimane, ha operato in un contesto di grande difficoltà, diventando un punto di riferimento per tutti i cittadini europei.
DUE GOVERNI E MOLTE TRIBÙ. Con l'escalation, anche gli Usa hanno chiuso (temporaneamente) i battenti e portato il personale in Tunisia. A livello internazionale, l'esecutivo insediato, dopo la presa dell'aeroporto, nel palazzi del potere di Tripoli non ha una legittimazione. Gli interlocutori dell'Occidente restano i governanti confinati a Tobruk, che controllano fette di territorio minime.
SCONTRI LAICI-LIBERALI. Descrivere il braccio di ferro, politico e militare, in corso come una lotta tra laici-liberali (finanziati dall'Egitto) e islamisti libici (foraggiati dal Qatar), è una schematizzazione drastica agevolata dal caos che, come spiegato a Lettera43.it l'esperto di estremismo islamico e di Paesi arabi dell'European Council on Foreign Relations (Ecfr), Mattia Toaldo, non rende merito ai possibili sviluppi della Libia post Gheddafi.

Da Misurata non arrivano gli islamisti

Il mosaico è molto più fluido e complesso. La battaglia, durata mesi, all'aeroporto di Tripoli, intanto, è stata descritta dai media occidentali come una vittoria dalle brigate filo-islamiche di Misurata alleate con le milizie jihadiste: conquista che aprirebbe la strada alla deriva islamica della Libia.
«In realtà, da Misurata non provengono islamisti», spiega Toaldo, reduce da un viaggio in Libia in primavera. «Sono le brigate di una città portuale di commercianti, molti attivi negli scambi europei. Militarmente molto forti, con le milizie di Zintan hanno dato un contributo decisivo alla caduta di Gheddafi. Poi i due gruppi sono diventati rivali».
Poi continua: «Al momento, i combattenti di Misurata sono gli unici a tenere testa e a respingere le milizie di Zintan, alleate con i cosiddetti laici-liberali di Tobruk. E a loro, non ai gruppuscoli di islamisti, va il merito della conquista dello scalo».
LA LOTTA TRA LE 'COSCHE'. A capo dell'auto-proclamato governo di Tripoli, è stato nominato al Hassi, «un accademico, non un islamista, da cui i capi di Misurata hanno preso le distanze». All'aeroporto, hanno fatto terra bruciata di quel che restava dei loro avversari, «una lotta tra cosche, piuttosto che tra islamisti e laici».
Elezioni democratiche o meno, chi vive nella capitale spera che, almeno nella città, con i nuovi amministratori torni la normalità. Da mesi gli uffici ministeriali, formalmente attivi, erano svuotati, il personale era fuggito a causa degli assalti.
TRIPOLI SENZA LUCE E ACQUA. L'ambasciata italiana di Tripoli descrive il quadro della situazione come «molto critico, soprattutto nella capitale gli effetti delle scorse settimane di scontri si sono fatti sentire»: «Manca l'elettricità e l'acqua. La Libia importa quasi tutti i beni di prima necessità e anche i generi alimentari cominciano a scarseggiare».
«Le banche e gli uffici pubblici», conferma la sede diplomatica, «sono quasi completamente chiusi, e una parte della popolazione - cioè almeno i residenti nelle zone vicino all’aeroporto - si è vista costretta a lasciare la città».

La proclamazione di Bengasi «emirato islamico»

Il resto del Paese è in pieno risiko. Gli estremisti islamici di Ansar al Sharia - per gli Stati Uniti e l'Unione europea si tratta di una «organizzazione terroristica» - hanno proclamato Bengasi «emirato islamico». Ma finora, questa entità esiste solo sulla carta.
«Il capoluogo della Cirenaica», precisa Toaldo, «è per l'80% controllato da movimenti islamici, che tra loro sono però antagonisti». Ansar al Sharia si contende infatti la città con i Fratelli musulmani.
MODERATI SCOMUNICATI. Contrari alla presa democratica del potere, con un proclama i fondamentalisti sunniti hanno scomunicato i moderati.
«Fratellanza musulmana e Ansar al Sharia sono nemici da sempre e scollegati», ricostruisce l'esperto, «al contrario le brigate di Misurata hanno stretto un'alleanza d'interesse con la Confraternita sostenuta dal Qatar. Storicamente tra i due gruppi c'è inimicizia, ma se i moderati islamici prendessero il controllo di Bengasi, con Tripoli la nuova Libia sarebbe fatta».
IL COVO ISIS DI DERNA. L'emirato fittizio di Bengasi non deve essere confuso con l'emirato di Derna: «Un serbatoio, fin dagli Anni 90, di reduci dall'Afghanistan e dal'Iraq, che ancora esportano la jihad nel mondo».
Dalla cittadina libica, scorre un flusso di terroristi diretto in Siria e Iraq, e talvolta anche di ritorno, con il miraggio di una nuova guerra santa. Nessuno mette piede a Derna, dove, con l'ascesa dell'Isis, il nucleo di mujaheddin ha issato solidale le bandiere nere.
MILIZIA TROPPO ISOLATA. «Finora però questa piccola e pericolosa milizia è isolata. Anche gli estremisti di Ansar al Sharia si tengono a distanza», spiega Toaldo.
Del covo, tutti in Libia hanno paura: «Se il governo di Misurata terrà a Tripoli, difficilmente si formerà un Califfato come nel Nord della Siria e dell'Iraq. I libici sono tanto frammentati internamente, quanto restii alle infiltrazioni straniere».
LA SALÒ 'LAICA' DI TOBRUK. Le 140 tribù non vogliono spartire il petrolio con altri, ma litigano tra loro fino alla morte per i suoi proventi. Non a caso, i laici-liberali che si sono messi nelle mani del golpista fallito Khalifa Heftar (foraggiato dai generali del Cairo e dai finanzieri privati degli Emirati) si sono ritrovati stretti nella Salò di Tobruk.
«La loro definizione di anti-islamisti è un'altra semplificazione. Sono etichettati come laici, ma le loro mogli sono velate. In Libia sono così deboli che, per andare dal parlamento alla sede del governo ad al Baida prendevano l'aereo», conclude l'analista.
Se anche il nuovo governo di Misurata dovesse fallire, alla Libia resta il medioevo delle enclavi jihadiste. E delle lotte tra le 100 e passa tribù.
Domenica, 31 Agosto 2014
(Lettera 43)

Afghanistan, attacco a Jalalabad: 11 morti Azione dei talebani in un centro servizi. Ci sono anche 59 feriti....





È di almeno 11 morti e 59 feriti il bilancio del violento attacco contro l'edificio del Dipartimento nazionale della sicurezza (Nds, servizi segreti) a Jalalabad, capoluogo della provincia orientale afghana di Nangarhar. Lo ha scritto il 31 agosto l'agenzia di stampa Pajhwok.
Cominciato alle 5 locali con lo scoppio di una autobomba guidata da un kamikaze davanti alla sede della Nds che ha permesso l'ingresso in essa degli altri 5 militanti armati, l'attacco si è concluso dopo cinque ore di scontro a fuoco.
A quanto si è appreso, le vittime sono due ufficiali dei servizi, tre civili e sei talebani, mentre della sessantina di feriti, almeno 20 sono in gravi condizioni. L'attacco è stato rivendicato con un comunicato dal portavoce degli insorti, Zabihullah Mujahid.
Domenica, 31 Agosto 2014
(Lettera 43)

Siria, in salvo i caschi blu filippini Militari filippini dell'Onu attaccati dai ribelli anti Assad. Sette ore di scontro a fuoco e fuga nella notte....





Tutti i 75 caschi blu filippini della Forza delle Nazioni unite per il disimpegno sul Golan (Undof), che si trovavano in una posizione rischiosa a causa di combattimenti, sono sani e salvi. Lo ha annunciato il 31 agosto l'esercito filippino. «Sono tutti al sicuro. Abbiamo lasciato la nostra posizione ma abbiamo portato con noi tutte le nostre armi», ha spiegato il luogotenente-colonnello Ramon Zagala.
Un primo gruppo di 35 soldati filippini era stato estratto dalla sua posizione il 30 agosto da veicoli blindati delle Nazioni unite, dopo che i ribelli siriani avevano portato un attacco a circa 4 km di distanza.
SCONTRO A FUOCO DI SETTE ORE. Gli altri 40 soldati - ha detto la fonte militare filippina - hanno affrontato ribelli siriani in uno «scontro a fuoco durato sette ore», per poi finalmente, approfittando della notte, raggiungere a piedi una postazione Onu a 2 km da loro. Sono stati quindi trasportati al capo Ziuani.
L'Undof conta 1.223 uomini provenienti da sei paesi (India, Fiji, Filippine, Irlanda, Paesi Bassi e Nepal). Il suo mandato è stato rinnovato per sei mesi, fino al 31 dicembre 2014.
Domenica, 31 Agosto 2014
(Lettera 43)

Arabia Saudita: “Usa e Ue prossimi bersagli dell’Isis, serve azione risoluta”...





IL CAIRO – L’Arabia Saudita ammonisce Usa e Ue,che saranno i “prossimi bersagli” dell’Isis se non ci sarà un’azione risoluta, mentre da Washington parte l’iniziativa per creare “la più ampia coalizione possibile” per combattere i sanguinari miliziani jihadisti in Siria e Iraq. O sulle alture del Golan dove una settantina di caschi blu è assediata nelle proprie basi in un nuovo fronte aperto dai filo al Qaida.
Il 30 agosto due postazioni dei peacekeeper filippini sono finite sotto il fuoco delle variegate formazioni dei ribelli siriani, compresi i qaedisti, poco dopo che un contingente irlandese era riuscito a “estrarre” un gruppo di altri 35 soldati di Manila semi-circondato nella propria base. Tra i soldati, circa 70, “assediati” nel Golan anche un prete cattolico, scrive la stampa di Manila. I 43 caschi blu delle Fiji sequestrati due giorni fa “sono in buone condizioni”, ha detto l’Onu che tratta per la liberazione.
Il monito di Riad, “se ignoriamo (l’Isis) sono certo che raggiungeranno l’Europa in un mese e l’America in un altro”, ha detto il re saudita Abdullah, arriva all’indomani dei nuovi ‘piani di al Qaida’, rivelati dai media internazionali, compreso un manuale in 19 pagine per costruire ordigni ”alla peste bubbonica”.
“Il vantaggio delle armi biologiche è che non costano molto ma le perdite umane possono essere enormi”, recita un brano del manuale rinvenuto in un computer portatile ribattezzato “il laptop dell’Apocalisse”, scovato in Siria. “Utilizzate piccole granate con il virus, tiratele in spazi chiusi come le metropolitane, gli stadi di calcio o i centri commerciali”, è l’inquietante messaggio alle cellule terroristiche.
“La cosa migliore è usarle vicino ai condizionatori d’aria. E anche in attacchi suicidi”. La scoperta del laptop dell’Apocalisse arriva negli stessi giorni in cui il ramo saudita-yemenita di al Qaida, l’Aqap, ha diffuso un altro manuale, questa volta di 9 pagine, in cui “istruisce” i propri adepti su obiettivi da colpire in Gran Bretagna e Stati Uniti.
“Entra nella tua cucina, prepara un ordigno che possa danneggiare i tuoi nemici”, recita il magazine del gruppo, considerato l’ispiratore degli “attacchi dei cani sciolti”, o “lupi solitari”, le cellule composte da uno o due terroristi. Dalle pentole-bomba di Boston alle mannaie nelle strade di Londra, sono i “consigli” dell’Aqap ad aver caratterizzato gli attentati del 2013 in Usa e Gran Bretagna, gli esperti non hanno dubbi. Occorre “combattere il terrorismo con forza, ragione e velocità”, ha sottolineato il re saudita.
Il segretario di Stato Usa, John Kerry ha rilanciato il piano per un’ampia coalizione per combattere l’Isis, che tra Siria e Iraq potrebbe contare, stimano gli esperti, “fino a 100.000 combattenti”, “almeno 50 carri armati” e “tra 250 e 400″ micidiali missili terra-aria SA-24, oltre a Stinger e batterie lanciarazzi. Si deve impedire al “cancro dell’Isis di diffondersi ad altri Paesi”, ha detto Kerry, in procinto di partire per il Medio Oriente per tessere la fitta tela delle alleanze.
(blitz quotidiano)

Ostaggi e terroristi: il mercato dei riscatti e le strategie adottate per contrastarlo...





Di Stefano Consiglio

Il 19 Agosto James Foley, un giornalista freelance di 40 anni, venne decapitato dai miliziani dell'IS. La sua colpa? quella di essere un cittadino americano, quindi di appartenere ad una nazione responsabile del bombardamento dello Stato Islamico. In questo i portavoce dell'IS sono stati molto chiari: la guerra santa contro gli infedeli, quindi in primis contro gli americani, ha come bersaglio tutti i cittadini statunitensi, non solo i soldati. Per giustificare questo modus operandi gli jihadisti hanno più volte sottolineato che quando l'America bombarda lo Stato Islamico, non tiene conto della presenza di donne e bambini, quindi di civili indifesi che finiscono per essere vittime collaterali di questo conflitto. 
Nel filmato che ritrae la decapitazione di Foley è evidente che il giornalista non ha più scampo, la sua sentenza è già stata decisa da diversi giorni, gli resta giusto il tempo per una breve dichiarazione il cui contenuto, tra l'altro, è stato evidentemente deciso dagli stessi jihadisti. Ciò che è importante sottolineare è che nelle settimane che hanno preceduto l'esecuzione, i miliziani dell'IS richiesero un riscatto al Governo americano per il rilascio del suo cittadino. Washington, tuttavia, rifiutò categoricamente determinando un'immediata reazione dei miliziani dell'IS, che inviarono una mail alla famiglia del giornalista informandoli che il Governo USA non aveva alcuna intenzione di trattare con i terroristi se non ricorrendo alla forza. Gli Stati Uniti, effettivamente, tentarono di liberare Foley usando la forza. Nel mese di luglio, infatti, un commando della Delta Force venne inviato in Siria per salvare Foley e altri ostaggi detenuti dagli estremisti islamici. Il blitz, sfortunatamente, fallì in quanto gli ostaggi erano stati spostati.
La scelta degli Stati Uniti di non pagare il riscatto di Foley è perfettamente in linea con la posizione ufficiale degli USA che hanno sempre sostenuto che non si deve trattare con i terroristi. Il perché di questa scelta è stato spiegato con chiarezza da David Cohen, sottosegretario al Tesoro per il terrorismo e l'intelligence finanziaria, secondo cui: "Rapire per ottenere un riscatto è diventata la più significativa fonte di finanziamento per i terroristi. Ogni transazione incoraggia un'altra transazione". L'amministrazione americana, in altre parole, ritiene che pagare un riscatto non faccia altro che spingere i terroristi a sequestrate nuovi ostaggi e, spesso, ad aumentare la cifra richiesta per il loro rilascio. Secondo un'indagine compiuta dal Times, nel 2003 i terroristi chiedevano circa 200 mila dollari a ostaggio. Oggi questa cifra è arrivata a quota 10 milioni. La politica europea in materia di ostaggi è del tutto opposta a quella degli Stati Uniti. Molti paesi europei, come l'Italia, la Francia e la Spagna, nel corso degli anni hanno sempre pagato i riscatti richiesti dai terroristi. 
A questo punto una domanda sorge spontanea: è meglio trattare con i terroristi oppure mantenere una linea intransigente simile a quella assunta dagli Stati Uniti? Da un punto di vista strategico, senza quindi considerare le implicazioni morali derivanti dal sacrificare una vita umana, la scelta di non trattare è senza dubbio la migliore. Molte organizzazioni terroristiche, infatti, hanno capito che il modo più facile per finanziare le loro attività è quello di sequestrate cittadini occidentali, tenerli in ostaggio per un po' di tempo, infine rilasciarli dietro l'esborso di un ingente riscatto da parte dei loro Governi. La politica del non trattare, nel lungo periodo, spingerebbe i terroristi a considerare anti-economica la cattura e la detenzione di un ostaggio, il che determinerebbe una drastica riduzione dei numeri a cui assistiamo oggi. E' evidente che questa linea teorica rappresenta una magra consolazione per chi, come i genitori di Foley, hanno perso un figlio perché l'America non ha voluto trattare con i terroristi. Come accade sovente, specialmente in guerra, la scelta moralmente più corretta non è purtroppo quella più efficace. 

(International Business Times)

La disperazione di un padre....(Video)





sabato 30 agosto 2014

Iraq, centinaia di yazide rapide e vendute schiave ai combattenti dell'Isis. La denuncia dell'Ondus...



Sono circa 300 le donne yazide rapitre e portate in Siria per essere vendute come schiave sessuali ad altri miliziani jihadisti. Lo denuncia l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus)



Rapite e vendute come schiave sessuali. Sono fino a 300 le donne yazide sottrate in Siria dai militanti dello Stato islamico, per essere poi consegnate con la forza ad altri miliziani jihadisti. La denuncia è delll'Ong Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria. L'organizzazione - che ha sede a Londra - riferisce di testimonianze credibili, secondo le quali le vittime di questo traffico sono vendute come al Sabaya, un antico termine che sta ad indicare donne 'infedeli', cioè non musulmane, che fanno parte del bottino di guerra. Ciascuna sarebbe venduta ad un prezzo fino a mille dollari, sarebbe fatta convertire all'Islam e poi 'sposata' dal suo proprietario. C'è poi il resoconto di Pakhshan Zangana, funzionaria del governo regionale del Kurdistan iracheno. A 'The Daily Beast' ha raccontato che, una volta fatte prigioniere, le donne yazide hanno due possibilità: convertirsi all'Islam ed essere vendute per cifre irrisorie, tra i 25 e i 150 dollari, o rifiutarsi e subire stupri e violenze, fino a una lenta morte. Zangana ha riferito le testimonianze di alcune ragazze, tra le quali anche 14enni, che hanno subito stupri da decine di uomini.  L'ong dice di essere riuscita a documentare con sicurezza 27 casi, registrati nelle province di Aleppo, Raqqa e Hasaka. Ci sono poi anche casi di notabili arabi e curdi che hanno comprato alcune donne, ma solo con il fine di liberarle successivamente e farle tornare alle loro famiglie

(Rai News)

«Is, decapitato un soldato libanese» Nuova esecuzione in video: è giallo. Riad: «Jihadisti tra un mese in Europa». Caschi blu sotto attacco....





Un altro video, un'altra decapitazione. La vittima dei jihadisti dello Stato Islamico, questa volta, sarebbe un soldato libanese sequestrato in agosto al confine con la Siria. Ma il condizionale, almeno per il momento, è d'obbligo.
Nel filmato, pubblicato il 30 agosto sul web da un sedicente combattente del gruppo estremista sunnita, il sottufficiale Ali al Sayyed (presentato come «un apostata appartenente all'esercito della Croce») appare bendato, con le mani legate dietro la schiena: un combattente legge la sua condanna a morte mentre un altro gli taglia la testa.
DUBBI SU BOIA E VITTIMA. Il boia, con il volto coperto, non è tuttavia vestito di nero, particolare che ha alimentato i dubbi su rivendicazione e autenticità del video. Inoltre, secondo fonti della sicurezza, al Sayyed avrebbe fatto defezione dall'esercito durante i combattimenti delle scorse settimane.
L'uomo decapitato, insomma, potrebbe non essere il sottufficiale e il suo carnefice un cane sciolto, non appartenente all'Is. Le autorità libanesi hanno avviato gli accertamenti del caso.
L'ARSENALE DELL'IS: 50 TANK E 400 MISSILI. Se dovessero confermare l'autenticità del video, si tratterebbe dell'ennesimo caso in pochi giorni, dopo quelli del giornalista statunitense James Foley e dei quattro egiziani accusati di lavorare per il Mossad israeliano.
E mentre nella comunità internazionale cresce la preoccupazione per le azioni dello Stato Islamico (accreditato dagli esperti di 50 tank da battaglia, tra cui M1A1 americani e T-72 russi rastrellati nelle basi irachene nella regione di Mosul, e 250-400 missili terra-aria SA-24 dalla base dell'esercito siriano a Tabqa), Washington passa al vaglio le possibili contromisure.
KERRY: «FORMARE UN'AMPIA COALIZIONE». Il segretario americano John Kerry, in un editoriale sul New York Times, ha proposto la creazione di una «ampia coalizione di nazioni» per impedire al «cancro dell'Is di diffondersi ad altri Paesi».
Kerry ha annunciato che avanzerà la sua proposta insieme al segretario alla Difesa Chuck Hagel agli alleati europei durante un vertice della Nato in programma a inizio settembre nel Galles, e poi a vari Paesi del Medio Oriente durante una missione che entrambi effettueranno nella regione.
AIUTI PER GLI STATI MINACCIATI DAI JIHADISTI. Inoltre, il presidente Barack Obama è pronto a illustrare l'iniziativa durante la riunione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. «Costruire una coalizione è un lavoro duro, ma è il miglior metodo per opporsi a un nemico comune», afferma il segretario di Stato americano, portando come esempio l'ampia alleanza costituita dall'ex presidente George Bush padre e dal suo segretario di Stato James Baker che portò all'intervento armato contro l'Iraq di Saddam Hussein dopo l'invasione del Kuwait. «In questa battaglia», aggiunge Kerry, «c'è un ruolo quasi per ogni Paese». E tra i settori di intervento sottolinea l'assistenza militare, l'assistenza umanitaria e aiuti per sostenere le economie di Stati minacciati dall'Is.
ARABIA E QATAR: «CONDANNIAMO IL TERRORISMO». Contro lo Stato Islamico si sono schierate, ufficialmente, anche le monarchie del Golfo, alcune delle quali sono accusate da più parti di essere complici dei jihadisti: Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi, Kuwait, Oman e Qatar hanno diramato un comunicato in cui condannano le azioni terroristiche dell'organizzazione sunnita e fanno appello affinché venga garantita l'unità dell'Iraq.
«Se li ignoriamo, sono sicuro che raggiungeranno l'Europa in un mese», ha affermato il re saudita Abdullah, «e l'America in un altro mese».
USA: «A RISCHIO IL CONFINE MESSICANO». Un allarme confermato dalle stesse autorità statunitensi. Secondo il Dipartimento per la sicurezza pubblica del Texas, «un esame dei messaggi sui social media dell'Is mostra il crescente interesse sul potersi infiltrare clandestinamente nel confine Sud Ovest degli Usa per un attacco terroristico. Gli account che si ritengono essere di militanti jihadisti hanno indicato una non specificata operazione al confine e la loro consapevolezza di una possibile entrata illegale tramite il Messico».
Sabato, 30 Agosto 2014
(Lettera 43)

Siria, jihadisti dell'Is decapitano soldato libanese...





Giustiziato un altro ostaggio. Scontri sul Golan: caschi blu sotto attacco


I jihadisti dello Stato islamico hanno decapitato uno dei 19 soldati libanesi presi in ostaggio nei giorni scorsi in un blitz ad Arsal, città libanese sul confine con la Siria. Lo si apprende da un video postato sul web, nel quale si vede il soldato, identificato come Ali al-Sayyed, bendato e con le mani legate dietro la schiena, che si contorce e scalcia mentre un militante dell'Is annuncia la sua uccisione. Poco dopo, un altro militante lo decapita. Alcune ore dopo il primo video, ne è stato postato un secondo che mostra altri nove soldati libanesi che implorano di essere risparmiati e chiedono ai familiari di manifestare per le strade delle loro città per chiedere la liberazione dei detenuti dell'Is in cambio del loro rilascio. Si tratta dell'ennesima decapitazione pubblica dopo quella di James Foley, il giornalista Usa catturato in Iraq e quella in Egitto delle "quattro spie di Mossad"

Golan, soldati tratti in salvo. L'Onu fa sapere che sono stati tratti in salvo almeno una trentina dei caschi blu filippini coinvolti in duri scontri con i ribelli siriani sulle alture del Golan, al confine tra Siria e Israele, dove due postazioni dei militari di Manila sono assediate da giovedì. In precedenza il ministro della Difesa filippino, Voltaire Gazmin, aveva riferito che una delle due postazioni in cui si trovano i 72 militari di Manila è stata evacuata mentre l'altra è stata attaccata dai ribelli qaedisti di Al Nusra e ne è nato uno scontro a fuoco. Nel frattempo il personale Onu sta tentando di localizzare i 44 caschi blu originari delle isole Fiji rapiti dai ribelli nel Golan, anche loro inquadrati nell'Undof, la missione Onu che pattuglia la zona contesa fra Siria e Israele.

(IlTempo.it)