Di Luca Lampugnani | 23.07.2014 19:06 CEST
Che differenza c'è tra la morbosità del toccare con mano la sofferenza, il dolore, il disastro degli altri, e la volontà di comprendere più a fondo, con uno sguardo diretto, ciò di cui giornali e media parlano? Sicuramente, a dividere i due aspetti, è una sottile linea, labile e cangiante, attraversata e calpestata in continuazione. Scattare selfie e fotografie in compagnia del relitto della Costa Concordia, o nel campo in cui è stato ritrovato il corpo di una ragazzina tredicenne, è fondamentalmente diverso dal visitare gli altipiani di Israele per guardare verso la Siria, laddove una guerra civile brutale e oltremodo violenta ha restituito un Paese in ginocchio, lacerato da uno Stato autoritario e da un auto proclamato califfato fondamentalista e votato alla Jihad? Nel primo caso, sicuramente, è solo voyeurismo: l'ennesima espressione di un'umanità anestetizzata al dolore e pronta, al fine di provare emozioni di plastica, a viaggiare verso i luoghi della cronaca nera. Nel secondo, invece, il discorso si complica e si ramifica, fornendo innumerevoli bivi alla coscienza. C'è chi, ad esempio, viaggia verso fronti o zone calde perché convinto che per capire, l'unico modo sia vedere, ascoltare, toccare con i propri sensi, senza mediazioni televisive, cibernetiche o cartacee. Tuttavia, in molti casi, il rischio che lo spirito che porti un individuo tra la Corea del Nord e del Sud, in Afghanistan, in Pakistan o alla Porta di Damasco, sulle alture del Golan, non sia poi lontano da quello di chi saluta dietro la telecamera mentre il cronista racconta di qualche disgrazia.
Nel mezzo di queste due possibilità, proprio a cavallo di quella sottile linea di cui parlavamo in precedenza, è possibile trovare il turismo di guerra, o dark tourism.
Sulla cresta dell'onda in realtà da decenni - volendo può essere definito tale anche una visita ai fronti della Prima Guerra Mondiale, così come a Waterloo o nei luoghi di grandi battaglie -, quest'ultimo ha avuto una vera e propria impennata solo recentemente. Basti pensare, come spiega il direttore dell'Instutute for Dark Tourism Research Philip Stone, citato da Haaretz, che 'il mercato' di questa particolare tipologia di turismo è cresciuto del 65% negli ultimi quattro anni, per un valore stimato di 263 miliardi di dollari. Questo aspetto, secondo lo stesso Stone, è dovuto principalmente ad una pubblicizzazione del prodotto, una vera e propria commercializzazione, che prima non c'era, o comunque in entità decisamente minore.
Ma qual è, in sostanza, questo 'prodotto'? Insomma, cos'è il turismo di guerra?
Com'è possibile leggere sul portale Web del già citato Istituto, il dark tourism è un "viaggio verso i luoghi della morte, del disastro e del macabro". Definizione, questa, che a tutti gli effetti tinge il fenomeno di puro e semplice voyeurismo. Tuttavia, scrive il quotidiano israeliano, il turismo di guerra può avere più facce. Una di queste, ad esempio, è quella di Nicholas Wood, ex corrispondente del New York Timesnelle zone dei Balcani e fondatore, nel 2009, dell'agenzia Political Tours, tra le più citate nel campo del dark tourism. L'idea, l'obiettivo di Political Tours, ha spiegato ad Haaretz, "è quello di portare le persone nei luoghi di cui leggono sul giornale o che vedono alla televisione, per dare loro una prospettiva diversa, più vicina, consapevole e informata". In linea teorica, continua, lo scopo non è tanto quello di limitarsi a scattare fotografie e riprendere i fronti di guerra, quanto la possibilità di toccare con mano ciò che solitamente viene 'vissuto' attraversi gli occhi di qualcun altro. E allora Libia, Sud Africa, Kosovo, Bosnia, Corea del Nord e molte altre diventano mete ideali del dark tourism, tendenza che attira maggiormente, secondo l'esperienza di Wood, maschi dai cinquant'anni in su, provenienti principalmente dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. Gli itinerari, oltre a mostrare i luoghi di guerra, prevedono incontri con uomini politici, giornalisti, funzionari e civili del posto, una sorta di pacchetto completo in grado di offrire, allo stesso tempo, 'avventura' e un'infarinatura di geopolitica, brivido e conoscenza.
Il dark tourism, che certo non è rappresentato solo dalla Political Tours, ma che ha tra le sue agenzie più conosciute del settore la War Zone Tours, la Untamed Borders e la Wild Frontiers, può portare il turista - dal più esperto sul luogo che vuole visitare al vero e proprio novizio - a Beirut, in Libano, oppure in Cecenia, in Iraq o nel Kurdistan iracheno. Insomma, in tutte quelle zone di guerra o meno, tuttavia quasi sempre sotto costante tensione, che occupano le prime pagine dei giornali e le aperture dei servizi televisivi. Come è facile immaginare, il turismo di guerra non è per tutte le tasche: i prezzi, infatti, possono variare in media tra i 2 mila e i 6 mila dollari, con alcune zone ovviamente più costose di altre.
In tutto questo, scrive Haaretz, un ruolo da assolute protagoniste lo stanno avendo Israele e la Palestina. Nonostante i disordini, che hanno escluso dai tour solo la Striscia di Gaza (almeno fino a quanto questa non tornerà, momentaneamente, una minaccia 'disattiva'), agli avventori del dark tourism vengono mostrate Gerusalemme, gli alti piani del Golan, la Giordania e altre zone particolarmente calde al momento. Un aspetto, questo, su cui si spaccano le varie agenzie: alcune, infatti, non organizzano assolutamente viaggi in regioni 'attive', attendendo che le acque si calmino. Altre, invece, probabilmente alla ricerca più dell'avventura e dell'emozione, con cui a tutti gli effetti viene mascherata una certa similitudine con chi si fa fotografare all'Isola del Giglio, semplicemente evitano i punti più critici, ma viaggiano ugualmente verso Tel Aviv e le zone controllate dall'Autorità Palestinese. E chissà che un domani, proprio questa regione, non possa diventare come il confine tra Corea del Nord e Corea del Sud, dove alcuni tunnel sotterranei e segreti, nelle intenzioni scavati da Pyongyang per raggiungere Seul e sferrare un attacco diretto, sono diventati ormai, tra mille misure di sicurezza, meta per decine di migliaia di turisti, soprattutto provenienti dalla Cina.
All'inizio di queste righe ci siamo chiesti quale fosse la differenza tra la morbosità del guardare il disastro e l'attrazione del toccare con mano, comprendere e quindi rispettare, un conflitto o qualsiasi altra bruttura. Alla luce di tutto ciò che è stato scritto, la risposta è una sola: la linea di demarcazione è certo sottile, ma a decidere da che parte stare è in tutto è per tutto il viaggiatore, la sua coscienza e le motivazioni che lo hanno portato a muoversi. Purtroppo, se mai dovesse avere ad esempio una conclusione definitiva il conflitto israelo-palestinese, anche Shebaya, luogo del recente massacro di almeno 100 palestinesi durante l'offensiva via terra di Tel Aviv, rischia di diventare una sorta di Isola del Giglio, un soggetto per i più fotografabile, tanto per dire "c'ero anche io", ma privo di qualunque significato e derubato della sua valenza storica.
L'unica speranza, in questo senso, è che la zona del turismo di guerra non alla ricerca di una mera avventura recuperi sempre più spazio nei confronti della controparte, alla sua effettiva nemesi, facendo indietreggiare e rubando terreno - sparire sarebbe un'utopia enorme - alla sottile linea tra mondanità e consapevolezza.
(International Business Times)

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