di Maria Scaffidi
Abdul Rahman Khattab, 8 anni. Yasmin Muhammad al-Mutawwaq, 4 anni. Ismail Abu Jami, 19 anni. Tre nomi sconosciuti di tre morti che saranno presto dimenticati ad eccezione delle rispettive famiglie. Due bambini e un giovane che non avevano probabilmente visto altra terra se non quella effimera e senza prospettive di Gaza e che sono stati colpiti dai missili dell’aviazione israeliana. La loro colpa, insieme a quella di tutti gli 88 morti, è stata quella di essere nati lì.

Le bombe israeliane sono cadute su abitazioni private, su caffè affollati di persone che stavano guardando la semifinale dei Mondiali di calcio, su motociclisti. In tutto Israele ha sostenuto di aver colpito 750 obiettivi, ma non tutti evidentemente erano militanti di Hamas.
A lanciare un appello è stato il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon: “La situazione in deterioramento sta conucendo verso una spirale che potrebbe sfuggire al controllo di chiunque”. Parole che scorrono via come il vento: tante ne sono state dette su questa terra e su questo conflitto che vede opposti due popoli, due culture millenarie, con in palio una terra dove apparentemente c’è spazio soltanto per uno.
Il primo ministro israeliano Bennamin Netanyahu d’altra parte è stato chiaro: fin quando i palestinesi lanceranno razzi sulle città israeliane, la parola tregua non sarà in agenda.
(Atlas)

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