Ho perso un amico per mano del regime e l'altro per mano dell’Esercito siriano libero. Molti siriani sentono che questa non è più la loro casa, che questo Paese diviso non ci appartiene più
Pubblichiamo la testimonianza di Musap, un ragazzo di 22 anni della provincia di Damasco, che nello stesso giorno ha visto morire due amici sui due fronti opposti: uno all’università di Damasco, sotto un colpo di mortaio lanciato dall’Esercito Siriano Libero; l’altro a Jobar, nella periferia orientale della capitale, ucciso dall’artiglieria del regime. Questi sono i pensieri che ha condiviso con noi qualche pomeriggio fa a Damasco dopo le elezioni che hanno garantito altri 7 anni al potere a Bashar Assad.
L’ultima volta che sono stato a Jobar ho visto un mio amico, e gli ho spiegato che l’Esercito Siriano libero sta uccidendo la gente a Damasco, e che lo vedo con i miei occhi. Poi un mortaio è caduto nel campus dell’università e ha ucciso uno dei miei amici, ed ero così arrabbiato. Ho cercato di chiamare il mio amico a Jobar per tutto il giorno, senza successo. Poi il giorno dopo ho visto la sua foto su Facebook: era morto nello stesso giorno. Ho perso un amico per mano del regime e l’altro per mano dell’Esercito siriano libero. Quella è stata l’ultima volta che sono andato a Jobar.
Quando la rivoluzione è iniziata, io sono diventato un attivista pacifista. Ma non voglio criticare i ribelli che hanno deciso di imbracciare le armi: è il regime che lo ha voluto. Quando, tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, hanno rilasciato i prigionieri dalle carceri, non si trattava di manifestanti pacifici ma di gente arrestata 5-6 anni prima. Uno di loro lo conosco: era stato arrestato 6-8 anni fa, era venuto dall’estero, aveva contatti con Al Qaeda e aveva guidato un attentato fallito contro il ministero dell’Informazione. Era in prigione per vero terrorismo ma il regime due anni fa ha deciso di rilasciarlo, e in breve tempo ha formato un gruppo armato piuttosto numeroso a Irbin, vicino a Zamalka, nella periferia orientale di Damasco. Controllava quella zona, e la gente al suo seguito ha imbracciato i fucili, molti erano ragazzini di 15 anni: bambini con le armi. Ed è iniziato il caos. Fermavano le persone in strada, ti prendevano la macchina…
Io sono di Zamalka. E lì c’era l’Esercito Siriano Libero che combatteva contro il regime. Io non sto con l’Esercito Siriano Libero, ma secondo me avevano iniziato bene. E non posso biasimarli per aver preso le armi. I miei amici che hanno deciso di combattere pero’ sono cambiati dentro. Le armi ti distruggono prima che tu possa distruggere il tuo nemico. E così, giorno dopo giorno, la rivoluzione pacifica è morta.

I quartieri di Jobar, Zamalka e Irbin sono visibili proprio a est del centro di Damasco in verde scuro (colore delle zone contese) o verde chiaro (in mano ai ribelli). In rosso la zona in mano al governo; in viola le zone dove sono state raggiunte tregue tra i due fronti
Tutta la zona di Ghouta (in verde nella mappa qui sopra, ndr) era coinvolta nella rivoluzione, e il regime all’inizio stava a guardare. Nel 2012, a Zamalka, io mi chiedevo cosa potessi fare. Non volevo combattere come i miei amici, ma volevo manifestare o fare attività politica.
A Ghouta, le emozioni controllano le persone. Ogni giorno piovono mortai, la gente muore, le case vengono distrutte, e le persone vogliono vendicarsi. Il regime è esperto, è stato geniale in questo, ha giocato con la gente come in una partita a scacchi. Tristemente, la maggioranza delle persone ha fatto esattamente quello che il regime voleva.
Adesso ho trovato me stesso in un gruppo dell’opposizione nonviolenta a Damasco, “Costruire lo Stato Siriano”. Come attivisti non abbiamo molto spazio politico, ma dobbiamo continuare a scavare con il cucchiaio, con le mani, giorno dopo giorno, per intaccare il muro. Possiamo cercare di essere vicini alle persone, di far capire loro che possono fidarsi di noi, possiamo continuare a lavorare per il cambiamento nella società. Nel 2011 la società siriana non era pronta, e ne stiamo vedendo i risultati.
Ieri mi trovavo nel quartiere di Jaramana, a sudest del centro di Damasco. C’erano degli uomini che sparavano in aria per festeggiare, e guardandoli sentivo che questo non è il mio Paese, che non mi appartiene più. Molti di loro non erano nemmeno siriani, alcuni portavano dei cartelli con la scritta “Guardiani della rivoluzione dell’Iran”. Festeggiavano nel mio Paese, e mi rendevano un estraneo. Camminando per Jaramana, guardando negli occhi dei passanti, mi sono accorto che molte altre persone si sentivano proprio come me, non erano felici, e nei loro sguardi si leggeva la domanda: “Perché questa gente sta festeggiando?”. A Jaramana il 90% della popolazione sta con il regime, ma la messinscena esagerata di quegli uomini che sparavano in aria dava fastidio anche a loro. La gente è stanca delle pistole. O forse non volevano attirarsi la vendetta dell’Esercito Siriano Libero.
Il regime ha dato ai ribelli la speranza di vincere, ma ovviamente non possono: il regime ha un esercito, e non importa quante armi hanno gli oppositori. Quando vorrà, il regime potrà riprendersi anche Ghouta, potrà riconquistare anche la città di Douma. Lo so che è un’area estesa e che la rivoluzione armata è molto forte lì, ma l’esercito può circondarla e sparare, sparare, sparare. E’ quello che ha fatto a Moaddamiya: dopo aver dato la speranza ai ribelli, li ha circondati e assediati per sette mesi. “Avete le armi? E allora morite con le armi”. La gente ha cominciato a morire. Dopodiché, il governo ha offerto la riconciliazione: “Vi lascerò andar via in cambio di acqua e cibo”. Ha offerto loro la scelta tra la libertà e il cibo.
Dopo la “riconciliazione”, io e altri attivisti siamo andati a Moaddamiya, a portare dei giocattoli ai bambini. C’erano così tanti soldati. Siamo entrati in una scuola, e c’erano i ministri e i sindaci che festeggiavano la vittoria contro questa gente. C’era la tv siriana che ripeteva: “La gente di Moaddamiya è tornata alla Madre Siria. Ma non è così. Li avete costretti a venir fuori, per poter mangiare e bere. All’inizio volevano che consegnassimo i giocattoli ai bambini mentre c’erano i ministri. Ma ci siamo rifiutati, li abbiamo distribuiti solo quando se ne sono andati tutti.
Ma i bambini non erano felici. Ci hanno guardato con odio, ai loro occhi eravamo proprio come tutti gli altri, hanno pensato che anche noi fossimo parte del regime. Ho parlato con un ragazzo, mi ha detto che per tre mesi non ha visto il sole: stava sottoterra, suo padre è morto, e lui ha 10-12 anni. Ha cominciato a piangere, poi ha cominciato a giocare con noi. Indossavo un costume da SpongeBob, e poiché alcuni bambini non volevano giocare mi sono tolto la maschera e ho cercato di parlare con loro. Ho parlato alla madre di quel ragazzo: non gliel’ho detto direttamente, ma le ho fatto capire che non sto con il regime, che sono contrario a quello che il regime ha fatto. Allora ha iniziato a sentirsi a suo agio.
Fino a quell’istante era come se si sentisse prigioniera in un altro Paese, come se fosse stata catturata dai nemici. Molti siriani sentono che la Siria non è più la loro casa. La gente di Damasco crede che questa sia la Siria e che Ghouta non sia più parte del Paese, mentre invece la gente di Ghouta sente che quella è la loro casa e non possono più stare nelle zone del regime. Questo è terribile, ed è per questo che abbiamo rifiutato le elezioni, perché è l’elezione del presidente di alcuni i siriani, ma non di tutti i siriani. E’ un’elezione che divide il Paese mentre, dopo oltre tre anni, è ora di tentare di ricucire le divisioni.
(La 27ma ora)

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