martedì 1 aprile 2014

La guerra e il paradosso di Damasco Reportage dalla normalità della capitale siriana...





Se non fosse per i check-point ovunque, i cavalli di Frisia e le barriere di cemento coi colori del drappo nazionale. Se non fosse per le bombe del regime sui quartieri dei ribelli e i colpi di mortaio dei ribelli sulla città. Se non fosse per i palestinesi assediati e ridotti alla fame nel campo profughi di Yarmouk. Se non fosse per migliaia di sfollati arrivati qui da ogni regione della Siria, come il signor Sattam e i suoi sette figli che incontro in un centro di accoglienza a Jaramana, alla periferia della capitale. È fuggito con i suoi sette figli. Firas, il maggior, sorride e si muove scomposto sul pavimento. Non parla, ha una grave forma di disabilità ma il suo sguardo dice più delle parole.
Se non fosse per questo, Damasco sembrerebbe una città normale. Vivace e caotica. Indaffarata e rumorosa. I rumori, ecco, quelli sono diversi. Tonfi sordi e distanti, esplosioni a volte più ravvicinate. Boati lugubri che risuonano nell’aria appena arrivi.
La normalità del conflitto
All’ultima curva scendendo dal valico con il Libano, prima ancora della città scorgiamo un pennacchio di fumo scuro. Laggiù a sud, nella cintura della periferia, l’esercito è entrato in azione. Ha appena sganciato una bomba-barile sulle postazioni ribelli. Jalal, l’autista che ci sta accompagnando da Beirut, pigia a tutta birra. Non serve. A Damasco nessuno corre. “Ci si abitua a tutto, anche alle bombe. È diventata la nostra quotidianità”, mi dice Rama, studentessa di letteratura inglese al secondo anno. La incontriamo all’uscita dell’Università, sullo stradone che dal quartiere Mazzeh conduce in centro città. Libri sotto il braccio, allunga il passo verso la fermata degli autobus.
Un punto di vista, uno solo
Ci si abitua per forza alla guerra, a Damasco. Qui c’è il centro strategico del regime, la presidenza di Bashar al Assad abbarbicata sul monte Qassioum, che sovrasta la città. Qui le basi militari e i centri decisionali dell’esercito. Qui, c’è un solo punto di vista, c’è solo la voce ufficiale, quella del governo. Da qui non si vede “la guerra in Siria”. Da qui si percepisce come Damasco vive e vede un conflitto che ha assunto proporzioni catastrofiche. È un punto di vista parziale. Ma si riesce anche a sentire la voce di qualche oppositore. Come l’avvocato Mahmoud Merei, uno dei pochi ancora “tollerati” dalle autorità. In carcere c’è finito parecchi anni prima della guerra. Lo incontro nel suo ufficio. Mi dice che prima del diritto internazionale – violato da tutte le parti in causa colpendo civili, ospedali e operatori umanitari – bisogna garantire il “diritto alla vita”: “Qui è fondamentale poter sopravvivere”.Questa, spiega con tono pacato, è la priorità, dopo oltre 150’000 morti.
Tra passato e presente
La figlia della signora Rada è una delle vittime di questa guerra. Aveva 8 anni. La mamma ci racconta che è morta durante un bombardamento ad Adra e ora il resto della famiglia è sfuggito. E lei, la mamma, è in coda per ricevere la razione alimentare mensile. È un’insegnate di scuola elementare. Come il signor Sattam, il papà del bimbo disabile, rientra nelle statistiche di 9 milioni di siriani bisognosi di aiuti
Eppure a Damasco capita anche di dimenticarsi della guerra. Per un attimo, ma solo per un attimo, quando una lama di luce accende di ocra il pavimento della Moschea degli Ommayadi. I bambini pattinano con le calze su una superficie levigatissima. Millenni di storia e un presente di incertezza assoluta. Una magia che sembra allontanare la guerra, anche se per poco. Poi risuona l’ennesimo boato, lontano, certo. Damasco era la culla della civiltà, mi ha detto un signore incontrato nella viuzze di Bab Touma, e tornerà ad esserlo. Lo spero per i siriani.
Emiliano Bos

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