Di Luca Lampugnani
Gli Stati Uniti lo hanno definito "abominio", l'ONU ha parlato di "uccisioni mirate di civili in base alle loro origini etniche e alla nazionalità". Intanto, con qualche distinguo, avanzano le ombre di un nuovo Ruanda. Il massacro di martedì a Bentiu, dove stando alle stime hanno perso la vita all'incirca 200 persone, ha inevitabilmente riacceso i riflettori sul Sud Sudan.
Il piccolo e disastrato Paese africano, indipendente dal 2011 e afflitto da una povertà dilagante, è lacerato da mesi da un'incessante guerra che vede contrapposte le forze riconducibili a due uomini politici di spicco, l'ex vicepresidente Riek Machar e l'attuale presidente Salva Kiir. Nel mezzo, braccati dalla violenza e dalla brutalità dimostrata da entrambi i fronti, i civili: "i cadaveri costeggiano la strada principale di Bentiu. Corpi senza vita sono ammucchiati al di fuori di una moschea, ci sono così tanti morti che devono essere rimossi con l'ausilio di un bulldozer", scrive James Copnall per Al Jazeera.
Alla base del conflitto, che con il passare del tempo ha decisamente assunto la forma di una guerra civile, vengono spesso indicate le divisioni etniche tra Machar, membro dei Nuer, e Kiir, appartenente al gruppo più numeroso del Paese, i Dinka. Eppure, si tratta solo di una punta dell'iceberg. Nel dietro le quinte, infatti, si muovono una serie di interessi lontani dall'appartenenza etnica, che vanno dal controllo politico al petrolio. Basti pensare, ad esempio, al modo in cui hanno preso forma gli scontri. Sul finire del 2013, infatti, le tensioni tra Kiir e Machar (quest'ultimo nel frattempo era stato estromesso dal potere nel luglio del 2013) hanno raggiunto picchi altissimi, fino ad arrivare alla denuncia da parte del presidente di un tentato golpe ordito dal suo ex vice. Un colpo di Stato in realtà invisibile, molto probabilmente sfruttato da Kiir per dare il via ad una repressione dura dell'etnia Nuer. E ancora, il massacro di questa settimana, di cui vengono accusati i ribelli di Machar, benché questi abbiano smentito ogni coinvolgimento puntando il dito per contro alle forze regolari e ad un loro piano propagandistico, è avvenuto in una città di vitale importanza per l'economia del Paese, essendo una tra le più ricche di petrolio.
Ma come spesso succede in conflitti simili, mossi da antichi rancori, da vendette e da 'nuovi' interessi, il sangue ha chiamato inevitabilmente altro sangue, portando alla situazione attuale. Una situazione sempre più difficile (se non impossibile) da gestire. Qualche giorno prima del massacro di martedì, esattamente venerdì 18 aprile, un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione in un centro ONU nella città di Bor, uccidendo una sessantina di persone e dimostrando tutta la brutalità di un conflitto che non da scampo nemmeno ai rifugiati. Intanto, come già specificato, non sono pochi coloro che vedono nel Sud Sudan il rischio di un nuovo Ruanda. Ma nonostante le scioccanti notizie di Bentiu, uno scenario simile appare ancora lontano dalla realtà. Benché sia assolutamente innegabile l'alto coinvolgimento di civili nel conflitto - le Nazioni Unite e i gruppi umanitari parlando di vecchi, donne e bambini uccisi al pari dei soldati, così come di stupri seriali e sistematici -, la situazione sud sudanese non sembra nemmeno avvicinabile al milione di vite umane strappate nell'arco di un solo mese dal genocidio ruandese.
Nella situazione attuale, dove quello di Bentiu è solo l'ultimo di una lunga fila di massacri recenti e lontani, il Sud Sudan appare somigliare solamente a se stesso e alla sua storia. Storia che fin dalle due guerre di indipendenza (1955-1972 e 1983-2005) ha conosciuto episodi di brutalità inaudita. Dalle repressioni del Sudan, non particolarmente incline a perdere la base dell'80% delle sue risorse petrolifere, fino alle divisioni interne ai movimenti indipendentisti del sud, le uccisioni di massa si sono susseguite senza sosta, alimentando le vendette e gli odi - razziali, etnici, politici e di controllo - che ancora oggi attraversano il Paese.
Il rischio peggiore, nel prossimo futuro del Sud Sudan, è che l'incapacità di porre fine alla guerra porti ad episodi sempre più violenti e ad un numero di vittime sempre più alto. Da una parte all'altra del conflitto, attualmente nessuno sembra pronto ad avviare seri colloqui e negoziati per firmare un addio alle armi che potrebbe salvare la vita a tanti civili. Così, mentre uomini, donne e bambini innocenti continuano a morire, non si può far altro che aspettare il prossimo massacro.
(International Business Times)

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