lunedì 2 giugno 2014

Elezioni Siria, Assad verso il (certo) successo alle presidenziali...





di Barbara Ciolli

All'estero è stato un plebiscito per il raìs. Che ora attende la riconferma scontata a Damasco.

In Libano, tra le decine di migliaia di espatriati siriani, Rabab è uscita dalle urne dell'ambasciata soddisfatta, dopo ore di ingorghi su un bus tappezzato di poster di Bashar al Assad.
«Per amore del presidente, io e la mia famiglia ci saremmo pagati anche il trasporto», ha raccontato sorridente, lasciando trapelare di essere stata agevolata dalla propaganda.
VIA AL VOTO ALL'ESTERO. Nel fiume umano che ha invaso Beirut per il voto all'estero delle presidenziali siriane, altri elettori sono più pragmatici. Ammettono di votare perché in «un regime di intelligence i rifugiati che disertano sono registrati». Molti hanno parenti tra ufficiali e delatori e non vogliono «perdere i privilegi». E soprattutto per tanti è «certo che il regime resterà al potere».
Alla vigilia del voto del 3 giugno, indetto in sfregio all'opposizione e anche agli appelli dell'Onu, i ribelli ormai sono fuori gioco e Assad considera di aver già vinto la sua guerra.
ATTESA BASSA AFFLUENZA. Con 150 mila vittime denunciate, un Paese raso al suolo e 9 milioni (su 21,5 milioni) di siriani fuggiti all'estero o nei campi per sfollati nel Paese, i seggi più affollati sono quelli negli Stati confinanti del Libano e della Giordania.
Al voto è attesa complessivamente meno della metà della popolazione. Forse anche ben al di sotto del 50%.
TUTTI PER AL ASSAD. Ma chi è in marcia verso le urne spesso ha un'unica fede da dichiarare: «Dio, la Siria e Bashar».
«Ne vale la pena. Assad è l'unico che può riportare la Siria fuori dal caos», raccontano i supporter di fronte alle telecamere di al Jazeera.
«Non una giornata di voto ordinario, ma una parata celebrativa», ha riportato la tivù qatariota pro ribelli, «il raduno di massa più visibile in Libano negli ultimi anni e possibilmente il più grande di siriani mai avvenuto all'estero».

Scontri in Giordania: il regime perde consensi

Tra l'oltre milione di siriani residenti e rifugiati del Paese dei cedri, l'organizzazione delle elezioni è stata capillare come la macchina di propaganda.
Chi ha votato si è dovuto prima registrare via mail o via fax nelle sedi diplomatiche, anche se i supporter dell'ultim'ora sono stati visti entrare ai seggi senza problemi.
SOSTENITORI IN BILICO. Nonostante il voto controllato, in Giordania, dove dai dati delle autorità vivono oltre 1,3 milioni di siriani, il consenso ad Assad è apparso meno monolitico. Accanto alle comitive urlanti «contro i terroristi», altri elettori si sono professati senza paura «per la rivoluzione e contro Bashar criminale», organizzando picchetti di protesta.
TENSIONI CON BEIRUT. In un contesto più svincolato da Damasco rispetto al Libano con gli Hezbollah sciiti al governo, era prevedibile una maggiore libertà di movimento, specie all'indomani dell'espulsione dalla Giordania dell'ambasciatore siriano per gli «insulti» alla monarchia troppo filo-occidentale.
L'UE CONTRO LE URNE. All'estero, i seggi per le presidenziali sono stati aperti venerdì 28 maggio in 43 ambasciate, ma non nella Turchia pro-ribelli che ha accolto centinaia di migliaia di rifugiati e anche le prime brigate dei combattenti. E neppure nella maggioranza dei Paesi europei che come la Francia, la Gran Bretagna e la Germania hanno disconosciuto le elezioni di Assad. O che, come in Italia, hanno chiuso le ambasciate e interrotto i rapporti con Damasco.
Ufficialmente, l'Unione europea ha dichiarato il voto «una parodia della democrazia priva di credibilità», visto che avviene «in mezzo a un conflitto, è limitato alle aree in mano al regime e con milioni di siriani allontanati dalle case».
LA SVEZIA NON SI ALLINEA. Ma in Svezia, per esempio, la comunità crescente di rifugiati che arrivano dopo essere sbarcati sulle coste del Mediterraneo ha potuto votare. E in realtà, anche i toni diversi dei leader europei nella presa di distanza dalle presidenziali siriane riflettono le medesime divergenze tra interventisti e negoziatori, ricorrenti negli oltre tre anni di guerra civile.

Damasco ha riconquistato i territori contesi

Per Assad e la cordata dei non allineati che lo sostiene, le elezioni sono parte della «soluzione politica» auspicata dai non interventisti.
Non c'è niente da festeggiare. E per gli stessi Usa è difficile ammettere la riaffermazione di Damasco dopo l'accordo sulla distruzione delle armi chimiche con la Siria, soprattutto dopo il flop dei negoziati di pace di Ginevra 2 in Svizzera.
Ma grazie alle armi russe e ai rinforzi dall'Iran, in meno di un anno le forze di Assad hanno riguadagnato i territori contesi con i ribelli: brigate sempre meno controllate dal Libero esercito siriano (Fsa) e ostaggio, alla fine addirittura in guerra, delle milizie jihadiste.
IL RAÌS SI SENTE AL SICURO. Per la propaganda di Teheran, «il 90% della popolazione siriana è tornata a vivere in aree sotto il controllo dell'esercito». Per quanto un quadro del genere sia molto edulcorato in zone come Raqqa (città di 200 mila abitanti sotto un emirato islamico), Assad si sente in una botte di ferro. Quel che è peggio è che il presidente siriano, diretto verso il terzo mandato, si considera un innovatore e, con la guerra, anche il salvatore della Siria moderna.
CONSULTAZIONI APERTE. Dopo il referendum costituzionale del 2010, l'erede di Hafez al Assad ha concesso alle altre formazioni politiche di partecipare alle elezioni, prima aperte solo al partito unico del Baath.
Solo che poi in Siria si è scatenato l'inferno. E da allora Assad, che nel braccio di ferro con l'opposizione e l'Onu non ha mai voluto scendere di sella, si pone come il capo di governo che ha indetto le prime presidenziali costituzionalmente libere del Paese dal colpo di Stato del 1966.
DUE SFIDANTI ALLE ELEZIONI. A capo della «transizione democratica» vogliono sempre rimanere gli Assad e il monolite del Baath. L'unico sfidante al presidente, a parte un suo ministro, è infatti il candidato di estrema sinistra Maher Hajjar, che si è prestato a dare un alone di legittimità al voto, destinato a raccogliere meno del 10%.
Come nell'Egitto del generale al Sisi, trionfatore alle presidenziali con il 93%, e prima ancora per Hosni Mubarak (96%), il generale Sadat (99%), Saddam Hussein che in Iraq sfiorò il 99% ottenuto anche dal padre di Bashar, sono gli uomini forti dei regimi a riportare la stabilità nei Paesi in rivolta.
NIENTE INTERVENTO USA. A tre anni dalla Primavera araba e a un anno dalle proteste di piazza Taksim, in Turchia, il premier democraticamente eletto Recep Tayyip Erdogan regge pur essendo nell'occhio del ciclone. In Libia, Egitto e Siria al potere tornano i partiti unici dei militari che rassicurano anche l'Occidente.
Contro Damasco il presidente americano Barack Obama ha promesso di riprendere a «inviare aiuti ai ribelli», interrotti per i negoziati. Ma un intervento militare degli Usa è escluso a priori.
Lunedì, 02 Giugno 2014
(Lettera 43)

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