lunedì 12 maggio 2014

Piccole donne d’Africa...





di Cecilia Di Mario.

C’è un filo invisibile che lega l’Etiopia con il Ciad, fino a raggiungere la Sierra Leone. Seguendo il tortuoso percorso disegnato da questo filo si scoprono tante storie, tutte terribili, tutte disumane. Bambine dall’infanzia negata sono oggi le donne che parlano di anni rubati.
Schiave d’Etiopia
Le donne etiopi sono esili e minute. I loro corpi sono cresciuti adattandosi al lavoro che è stato loro richiesto fare. Principalmente si tratta di occupazioni quali il lavoro nei cantieri edili, affiancate dagli uomini della tribù, oppure la raccolta dell’acqua e della legna, che richiedono lunghe camminate. Le raccoglitrici partono dai villaggi intorno alle 5 del mattino secondo un via vai che ininterrottamente le tiene impegnate fino a sera. Lavorano con la promessa di ricevere a fine giornata 20 birr (1 dollaro), un salario pari a metà di quello percepito da un uomo. Costrette a lavori massacranti fin dall’infanzia, le donne che vivono nei villaggi dell’entroterra sono perlopiù analfabete. Come riportato dall’Ong Project Harah, infatti, l’80% della povertà e dell’analfabetismo è concentrato nelle zone rurali e colpisce prevalentemente la popolazione di sesso femminile. Quelli delle piccole donne africane sono destini segnati fin dalla nascita; una volta raggiunta l’età per prendere marito, le giovani sono assegnate ad uno sposo scelto per loro dalla tribù di appartenenza; a partire da questo momento la loro esistenza segue una traiettoria lineare che le costringe ad alternarsi tra famiglia e ritmi lavorativi massacranti, senza che esista nessuna forma di tutela o garanzia sanitaria. Non sono contemplate prospettive di vita alternative. Pochissime sono quelle che, spinte dal coraggio di immaginare un futuro diverso, tentano una fuga disperata, principalmente scegliendo come meta l’Arabia Saudita. A seguito del tentativo di diverse donne di rifugiarsi nel paese musulmano, il governo etiope, ha preso però, provvedimenti, adottando una forte politica di regolamentazione dei flussi migratori. Gli aiuti delle Ong internazionali non sono ancora sufficienti. Spesso le donne in Africa sono condannate alla prostituzione, unico mezzo che permette loro di garantire una vita dignitosa ai propri figli.
Soldatesse in Sierra Leone
La guerra civile inizia in Sierra Leone nel 1991. Il Fronte Rivoluzionario Unito (Ruf) guida la rivolta per rovesciare il presidente Saidou Momoh, ex generale, e si muove con l’appoggio del Fronte Nazionale patriottico di Liberia capeggiato da Charles Taylor. La zona calda del conflitto è quella al confine tra la Sierra Leone e la Liberia, ricca di diamanti. La guerra si protrae fino all’ intervento internazionale, in prevalenza britannico, del 2002 che porta al disarmo di 45mila guerriglieri. Diciannove anni dopo l’inizio del conflitto, di fronte al Tribunale internazionale dell’Aia, Charles Taylor viene condannato a 50 anni di detenzione da scontare in un penitenziario di massima sicurezza in Gran Bretagna. L’ex presidente liberiano viene giudicato colpevole di ogni accusa a lui imputata tra cui, complicità e favoreggiamento in assassinio, stupro, riduzione in schiavitù, crudeltà ed altri innumerevoli crimini di guerra. Vestito di tutto punto, curato ed elegantissimo, di fronte alla Corte non può però nascondere le sue mani sporche, macchiate del sangue di milioni di civili rimasti uccisi. Le bambine soldato di ieri, quelle che sono sopravvissute alla guerra, sono le giovani donne africane che raccontano oggi storie di sangue e violenza, di urla e sesso. Quelle storie senza infanzie di giochi, scandite dai colpi delle mitragliatrici.
Laura Conteh viene rapita all’età di dodici anni, mentre era in casa con i genitori. “Fecero irruzione in casa e poi la bruciarono” racconta “mi violentarono per ore, in tanti.” Janet Masary aveva venti anni al momento del rapimento. Costretta, durante tutto il conflitto, ad essere la schiava sessuale dei ribelli. Kadiatzsu Koroma racconta del periodo della prigionia. “Quando eravamo in pattuglia, se i miei compagni vedevano una donna incinta scommettevano sul sesso del piccolo. E le tagliavano il ventre per verificare.” Le donne soldato della Sierra Leone sono esistite con la finalità di uccidere quanti più civili possibili. Secondo quanto riportato dalla Corte dell’Aia, le offensive del Ruf, abilmente manovrate da Taylor, avevano l’obiettivo di annientare tutto ciò che fosse “vivente”, usando a tal fine, ogni mezzo possibile. Le giovani guerrigliere erano chiamate a compiere ogni atrocità nei confronti dei nemici. “Andavamo e uccidevamo. Tagliavamo le mani, le orecchie. Prendevamo la colla e gliela mettevamo negli occhi così non potevano vedere.” Racconta Mabinti Jawara, rapita all’età di 12 anni. “Va, va lontano e uccidi” è il verbo che risuona ancora nelle teste di molte, sebbene siano passati più di dieci anni dalla fine del conflitto. Sono forse parole destinate ad accompagnarle fino alla fine dei loro giorni.
La bambina e la moglie: donne in Ciad
Di bambine soldato in Ciad non ce ne sono, ma di spose bambine i villaggi africani sono pieni e la loro sorte non sembra migliore, almeno per il momento. Piccole donne costrette a diventare grandi in pochi istanti, quando viene loro assegnato uno sposo cui sono obbligate a sottostare come ad un padrone. Le giovani africane sono costrette a prendere marito durante il periodo dell’adolescenza per il peso che la ‘verginità’ acquista nei villaggi. Una donna non vergine ha, infatti, un valore di molto inferiore rispetto a quello di una donna illibata. Poiché difficilmente esse superano il periodo della pubertà senza essere violentate, diventa necessario vengano date in spose molto precocemente. Costrette a subire violenze e soprusi di ogni genere, spesso scelgono di avvelenarsi piuttosto che continuare a vivere al fianco di un uomo che non amano e che le maltratta. Sebbene la pratica della dote sia ancora diffusa e i matrimoni tra gli adolescenti siano all’ordine del giorno, un timido passo in avanti sembra essere stato fatto grazie all’azione della ong italiana COOPI, finanziata dall’Unione Europea. L’intervento della Coopi ha portato diverse donne a scegliere la via della ribellione, rifiutando di sottostare alla volontà di genitori e parenti.
La storia di Hadje Brahim è quella di una quindicenne comprata per 380 euro che ha scelto, però, di non sottostare ad un destino così brutalmente imposto. “Io sono scappata con un ragazzo che amo e mi sono fatta mettere incinta così ora l’altro non mi vuole più” racconta Haje. Molte sono oggi le donne che grazie all’accoglienza della ong possono permettersi di sognare di andare a scuola. C’è un filo che si stende dal Ciad all’Etiopia fino ad arrivare alla Sierra Leone. È un filo sporco di sangue che sussurra al vento storie di urla e violenze. È un filo bagnato dalle lacrime strozzate di donne a cui ogni futuro è stato negato. E se la guerra in Sierra Leone è finita e le piccole donne dei villaggi del Ciad iniziano a ribellarsi ad una legge sbagliata, ci sono altre bambine soldato che nascono oggi e saranno domani storie di umiliazioni e vite negate.

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