domenica 12 ottobre 2014

Se anche Kobane cade nelle mani dello Stato Islamico...





Di Luca Lampugnani

Alamo, Stalingrado: per comprendere fino in fondo quanto è cresciuta negli ultimi giorni la valenza (mediatica e non) di Kobane, basta elencare anche solo parzialmente i grandi episodi storici cui è stata paragonata. La città siriana a ridosso del confine turco, con una popolazione stimata di 300 mila abitati - la maggior parte dei quali fuggiti proprio verso la Turchia -, si trova sotto l'assedio dei militanti dello Stato Islamico dal 19 settembre scorso. E come è di norma nell'attuale e costante mutevolezza dei fronti mediorientali, le sue sorti sono incerte, cambiano giorno dopo giorno, cozzano in una babele di versioni e scenari.

All'inizio di questa settimana, Kobane, nota anche con il nome arabo di Ayn al-Arab, sembrava ormai caduta irrimediabilmente nelle mani del sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi e dei suoi uomini. A sostenerlo, con forza ed interesse, era Ankara. Più in sordina, ma comunque disfattista, era anche l'opinione del Pentagono. Nelle ultime ore, al contrario, la disastrosa situazione della città di frontiera viene descritta in lanci di agenzia e report internazionali come, seppur pallidamente, migliorata. O, per meglio dire, tenuta momentaneamente un passo più lontana dal baratro delle bandiere nere dello Stato Islamico grazie alla strenua resistenza delle forze di autodifesa curde dell'YPG e ai raid aerei della coalizione internazionale.

Tuttavia sul futuro di Kobane continua ad aleggiare un'ombra minacciosa. Come confermato da Chuck Hagel, Segretario della Difesa degli Stati Uniti, la situazione nella città rimane infatti "pericolosa", mentre a poco meno di un mese dall'inizio dell'assedio si contano all'incirca 500 morti, almeno 200 dei quali jihadisti dell'IS, stando all'Osservatorio Siriano per i Diritti Umani. E qualora la resistenza curda dell'YPG dovesse definitivamente cadere sotto la spinta del califfato, secondo l'inviato delle Nazioni Unite Staffan de Mistura il mondo intero sarebbe costretto ad assistere al massacro delle persone, combattenti e non, rimaste in città, tracciando un parallelo con quanto successo a Srebrenica nel 1995.
Ma la definitiva sconfitta dell'autodifesa curda e il passaggio di Kobane sotto l'egida dello Stato Islamico non ricadrebbe certo solo nell'aspetto umanitario, anzi. Per prima cosa, vista la crescente attenzione internazionale attorno alla città, per il califfo e i suoi uomini la presa di Kobane sarebbe un'ulteriore medaglia mediatica da appuntare al petto, nuovo set dove registrare messaggi propagandistici, esecuzioni brutali e quindi mostrare la pochezza delle strategie a stelle e strisce. In secondo luogo, e non meno importante, il controllo della città si tradurrebbe in una maggiore facilità nel gestire il contrabbando e l'afflusso di aspiranti jihadisti dall'Europa e non solo, la maggior parte dei quali raggiungono la Siria e l'Iraq attraverso la Turchia.

Proprio Ankara, seppur nell'ombra e per certi versi passivamente, è attrice protagonista delle travagliate vicende di Kobane, rimanendo a guardare a pochi chilometri di distanza e senza muovere un dito i feroci scontri e le colonne di fumo salire dalla città. Sulle sorti di quest'ultima per la Turchia si giocano diversi scenari, tra cui quello di una rottura definitiva della fragile tregua con il PKK (sigla curda ritenuta organizzazione terroristica da Ankara e da Washington), come hanno anticipato le manifestazioni e gli scontri con le forze dell'ordine in numerose città turche, episodi che hanno fatto registrare anche qualche deceduto. Tuttavia, come torna ciclicamente a dimostrare, la road map della Turchia nell'attuale focolaio mediorientale ruota tutta attorno alla caduta dell'establishment di Damasco.
Assistere ed essere artefice del rovesciamento di Bashar al-Assad è infatti un mantra che accompagna Ankara da diversi anni. E il sultano Erdogan non ha più alcuna intenzione di subire una delusione simile a quella provata l'anno scorso, quando alla notizia degli attacchi chimici del regime sui 'ribelli' gli Stati Uniti inizialmente pronti ad un intervento armato 'no boots on the ground' hanno preferito la strada della 'diplomazia'. E poco importa, o comunque passa in secondo piano, se mantenere le proprie mire sul Medio Oriente rischia pesantemente di tradursi in una nuova estenuante stagione di tensioni interne tra Ankara e il PKK - sempre sul fronte di Kobane, giusto per mantenere un certo grado di pressione, i militanti del PKK pronti a raggiungere i fratelli del YPG vengono bloccati dall'Esercito di Ankara. Segno, quest'ultimo, di una Turchia che vuole tornare ai fasti del passato, quando la sua potenza regionale era vero e proprio marchio di influenza mediorientale.
Come già accennato, benché il Parlamento abbia approvato l'intervento e la partecipazione alla coalizione internazionale - in un iter piuttosto lento, giustificato con il paravento degli ostaggi turchi nel consolato di Mosul, in Iraq -, per il momento la Turchia è rimasta impassibile ad osservare Kobane bruciare. Perché? Perché Ankara è pronta a correre il rischio di trovarsi i combattenti della Jihad dello Stato Islamico - per altro negli ultimi tre anni aiutati e presumibilmente finanziati nella cieca volontà di rovesciare al-Assad - nel giardino di casa?

La risposta sta nel valore che Kobane ha assunto agli occhi delle strategie turche. La città di confine, simbolo e roccaforte di fondamentale importanza per i curdi, altro non è che una moneta di scambio, valida sia nei confronti degli stessi curdi sia nei confronti degli Stati Uniti, in entrambi i casi sfruttata per raggiungere la caduta dell'establishment baatista di Damasco. Per quanto riguarda i primi, la Turchia sembra voler barattare la difesa di Kobane con la promessa di un impegno diretto dei combattenti curdi - ovviamente non il 'terrorista' PKK - contro le forze regolari di al-Assad. Per quanto riguarda Washington, invece, Ankara è tornata alla carica chiedendo di allargare il fronte unilateralmente anti-IS al regime siriano, ponendo come condizioni una area cuscinetto tra Turchia e Siria e l'istituzione della no-fly zone, vera e propria dichiarazione di guerra a Damasco se messe in pratica.
E gli Stati Uniti? Ora come ora la Casa Bianca si è limitata ad accentuare il numero e la portata dei raid aerei attorno a Kobane, dimostrandosi almeno nelle intenzioni poco disposta a cedere ai ricatti turchi. Tuttavia proprio per Washington i grattacapi attorno alla città curda sotto assedio sono molteplici e spinosi. Strategicamente, la caduta di Kobane sarebbe simbolo - diffuso in tempo reale e in tutto il mondo - del fallimento di quell'"indebolire e distruggere" lo Stato Islamico che si trova alla base della coalizione internazionale, visto che il califfato, più che indietreggiare, sembra espandersi giorno dopo giorno. Dimostrerebbe inoltre ancora una volta l'incapacità statunitense di comprendere, e agire per tempo e con raziocinio, nel quadro mediorientale.
Mediaticamente, com'è ovvio, la débâcle sarebbe totale, nell'ordine macroscopico delle cose. L'entrata in pompa magna dello Stato Islamico a Kobane con le bandiere sventolanti si tramuterebbe senza alcun dubbio nel colpo di grazia alla figura di un Obama come presidente 'no boots on the ground', niente stivali (dei soldati, ndr) nei pantani internazionali, facendosi simbolo del fallimento di tale filosofia militare. Ancora, non va sottovalutata l'eco che avrebbe l'eventuale massacro di massa che i militanti estremisti farebbero di chiunque si trovasse sulla loro strada a Kobane: una brutalità che avverrebbe a pochi, pochissimi chilometri da un Paese della NATO, la Turchia, che nonostante le basi NATO e il secondo esercito più potente e vasto dell'organizzazione ha guardato, guarda e probabilmente guarderà gli eventi susseguirsi a debita distanza.

Insomma, benché possa sembrare paradossale, per certi versi l'eventuale presa di Kobane da parte dello Stato Islamico avrebbe maggiori risvolti che non la caduta, a suo tempo, dell'attuale roccaforte del califfato in Siria, Raqqa. Risvolti che, in positivo e in negativo, influenzano il prossimo futuro tanto dello Stato Islamico - che dalla conquista ne guadagnerebbe non solo mediaticamente, anche se non va dimenticato che una sconfitta degli uomini del califfo avrebbe un impatto altrettanto pesante sul conflitto -, della Turchia e, ovviamente, degli Stati Uniti.
Ad ogni modo, la situazione rimane incerta, liquida. Ciò che oggi può sembrare speranza per una tenuta delle resistenze curde, domani potrebbe trasformarsi in sconforto per una sconfitta su tutta la linea. E viceversa.  

(International Business Times)

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