Siria, missione fotoreporter...

DI FRANCESCA GHIRARDELLI. FOTO DI ABD DOUMANY E BASSAM KHABIEH
Allo scoppio della guerra civile Bassam era ingegnere e Abd studiava odontoiatria. Invece di prendere le armi hanno deciso di fotografare il dolore della loro gente. E con quegli scatti spediti in rete hanno aperto gli occhi al mondo
Tre anni: è passato da pochi giorni l’anniversario dell’avvio del calvario siriano, cominciato come una “primavera” e finito nella guerra civile. E contro i civili, spesso sigillati dentro assedi infiniti, si ripetono bombardamenti indiscriminati, esecuzioni sommarie, stupri, privazione dei beni di prima necessità, fino alla fame, arma di guerra che consuma la popolazione. Lo dicono le pagine dei rapporti stilati da Nazioni Unite e organizzazioni per i diritti umani. Lo testimoniano le facce di chi ha visto cosa è successo ed è riuscito a mettersi in salvo, fuori dal Paese. Lo racconta chi ancora è sotto le bombe e riesce a comunicare col resto del mondo solo grazie alla rete.
«Il figlio dei miei vicini non c’è più, è morto a gennaio di malnutrizione. Aveva solo due anni». Bassam Khabieh, 26 anni, era un ingegnere informatico prima che la Siria si infilasse nel vicolo cieco della guerra. Oggi corre tra la polvere e i calcinacci delle palazzine appena venute giù, sotto i raid aerei che colpiscono la sua città, Duma, una decina di chilometri dal centro di Damasco. Lì vive coi fratelli, le sorelle e la madre, otto persone in tutto. Con la pratica sul campo è diventato un fotografo professionista a forza di inquadrare feriti, morti e funerali, macerie per le strade e interni di abitazioni, coi divani e il resto del mobilio, ma senza più i muri intorno.
«All’inizio della rivoluzione usavo uno pseudonimo per evitare problemi ai checkpoint. Ora utilizzo anche il mio vero nome, perché ormai non oltrepasso più posti di blocco». Insieme ai suoi concittadini, Bassam è chiuso dentro il perimetro della città controllata dai ribelli dal novembre del 2012, messa sotto assedio dai fedelissimi del presidente. Secondo la stampa vicina al regime, qui si nasconderebbero tra i 15mila e i 20mila “terroristi armati”.
«Viviamo sotto i bombardamenti delle forze di Assad, i colpi di artiglieria e le incursioni aeree si ripetono nelle aree residenziali come sulla linea del fronte. Non ci sono medicinali né cibo, vediamo i segni della carestia, mangiamo quello che riusciamo a coltivare», ci racconta via Facebook, in un’intervista raccolta nell’arco di diverse serate, il collegamento spesso interrotto. Gli chiediamo se abbia mai pensato di unirsi ai ribelli: «Ci sono molti combattenti, ma pochi giornalisti e fotografi. Io uso la fotografia per documentare quello che accade».
Bassam ha scattato la sua prima immagine di guerra col cellulare quando ancora faceva l’ingegnere, durante i funerali delle vittime di Barzeh, un sobborgo di Damasco. «È stato un momento carico di emozione, dopo la sepoltura dei martiri la gente ha iniziato a pregare Dio di benedirli». Centinaia gli scatti che sono seguiti, pubblicati all’estero per l’agenzia Reuters, anche sulle pagine del New York Times, comprese quelle delle vittime degli attacchi chimici di Ghouta, il 21 agosto del 2013: «Sono rimasto nell’area due settimane, ho visitato i centri medici che erano pieni di cadaveri di uomini, donne e bambini, poi ho raggiunto i luoghi colpiti dagli attacchi chimici. Nel mio giro ho scattato foto di vittime, fosse comuni, animali morti». Tra le ultime immagini pubblicate c’è anche quella del neonato coperto di polvere, tirato fuori vivo da sotto le macerie e sollevato in aria quasi come un trofeo. «Quel giorno mi trovavo vicino al bersaglio dell’attacco aereo. Ero con un amico che stava controllando i danni alla sua casa, quando il velivolo militare è tornato indietro per colpire lo stesso posto una seconda volta, provocando molte vittime». Come si resiste così a lungo a scene tanto dure? «Con il mirino cerco la sofferenza delle persone, perché il mondo senta quello che sentiamo noi. Per parte mia, ho perso la sensibilità prima ancora di diventare un fotografo: in tre anni ho visto migliaia di morti». Quando chiediamo cosa gli manchi di più, nella quotidianità sotto assedio, risponde senza esitazione: «L’elettricità. Ne abbiamo solo per un’ora e mezzo al giorno».
Niente ritrovi fra amici dopo il calare del sole, le strade di Duma restano al buio, nessuna luce, da nessuna parte. «Non riesci nemmeno a vedere la tua stessa mano, e andare in giro è pericoloso», ci racconta Abd Doumany, 23 anni. Con lui Bassam condivide l’impegno “militante” della fotografia oltre che una stretta amicizia. Abd frequentava il terzo anno della facoltà di Odontoiatria quando è stato costretto ad abbandonare gli studi: «C’erano molte spie del regime in giro e dopo aver partecipato a due manifestazioni di protesta in facoltà sono diventato un ricercato». Anche lui ha iniziato a scattare foto col cellulare, poi con la macchina semiprofessionale del fratello. Anche lui oggi è un bravo fotografo: «Otto mesi fa sono stato ferito e ancora non riesco a camminare», ci racconta, sempre on line. «Stavo andando a “coprire” gli scontri, un cecchino ci ha sparato e noi che eravamo su una moto siamo andati a finire contro un’auto». A prendersi cura di lui ora è la sua famiglia, sei persone riunite in una casa a meno di un chilometro dal fronte.
L’immagine che ha scelto per il suo profilo in rete è una foto che ritrae il fratello maggiore Zeyad, da bambino. «È stato arrestato il 1° novembre del 2012, da allora non sappiamo più niente di lui». Quando punta l’obiettivo, Abd dice di cercare «qualsiasi cosa riguardi la rivoluzione e la sofferenza della gente. E faccio del mio meglio per pubblicare. È più di un lavoro, è diventata la mia vita, il mio dovere nella rivoluzione».
Parlando di cibo, confida: «Cuciniamo il pane usando il mangime degli animali. Non chiedermi che sapore ha! Il poco cibo che c’è è davvero caro e non ce lo possiamo permettere». Gli chiediamo cosa abbia pensato la gente di Duma della Conferenza di pace di Ginevra: «Nessuno vuole aiutarci, tre anni di sofferenze ma a nessuno interessa. Così a noi non interessa di Ginevra».
Nelle foto di Abd si vedono da vicino i gesti dei ribelli in azione, durante le esercitazioni o a riposo. Ma anche il cielo sopra la città, con le sagome nere dei combattenti, alla luce dell’alba o del tramonto, e le nuvole polverose delle esplosioni. «Qui vivono 40mila famiglie ed è quasi impossibile uscire, anche per le emergenze». In una delle conversazioni serali avute con lui la comunicazione si interrompe nel giro di pochi secondi: «Ci sono pesanti bombardamenti ora, mentre parlo con te. Devo muovermi». «Sono triste per i siriani» è la frase con cui, su due piedi, ci congediamo. «E noi siamo tristi per l’umanità», è la sua risposta da Duma.
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