lunedì 31 marzo 2014

Il muro della vergogna che separa Siria e Turchia...



Ayşe Gökkan è il sindaco di Nusaybin, città del Kurdistan turco al confine con la Siria, dove il governo di Ankara sta costruendo un muro. La sua battaglia, iniziata a novembre con uno sciopero della fame, non è ancora finita. Testo e foto di Giulia Sabella



Ci sono dei bambini che corrono in un prato. Pochi metri più in là un uomo lavora a bordo di un trattore. È una scena che potremmo vedere in qualsiasi parte del mondo se non fosse che il campo è diviso a metà da un muro di filo spinato alto più di due metri.
I bambini si trovano a Nusaybin, città curda nel sud-est della Turchia. Dall’altro lato, dove lavora l’uomo, c’è invece Qamishli, centro abitato del Kurdistan siriano (Rojava). Poco importa che le due città siano unite da sempre da cultura, lingua, vincoli di parentela e amicizia. Alla fine dell’anno scorso il governo di Ankara ha deciso di innalzare un muro lungo la frontiera, ufficialmente per impedire l’ingresso nel Paese a contrabbandieri e terroristi. Questa spiegazione non ha convinto tutti, tanto che Ayşe Gökkan, sindaco di Nusaybin, a novembre aveva iniziato uno sciopero della fame contro quello che rapidamente è stato ribattezzato il “muro della vergogna”.
Incontro Gökkan insieme ad una delegazione di osservatori italiani che si trovano nel Kurdistan turco in occasione del Newroz, il capodanno curdo. Ci accoglie nel suo ufficio e ci racconta la sua storia.
«Anche se sono il sindaco nessuno mi aveva detto che volevano costruire un muro, ho ricevuto la notizia come tutti gli altri». Dopo aver chiesto spiegazioni al prefetto, al ministro dell’Interno e anche al premier Recep Tayyip Erdoğan, Gökkan è allora andata al confine, dove si stava costruendo la barriera, insieme a una cinquantina di persone per parlare con i militari. I soldati hanno lasciato passare solo lei, picchiando gli altri per allontanarli. «Mi sono seduta lì e gli ho detto che non mi sarei mossa fino a quando non mi avrebbero dato delle informazioni». È iniziato così lo sciopero della fame che è durato 9 giorni.
Alla protesta di Gökkan si sono unite centinaia di persone che sono scese in strada per manifestare. Adesso al posto di un muro che doveva essere alto sette metri e lungo sette chilometri ci sono invece due barriere di filo spinato, una delle quali è alta poco più di tre metri e lunga 1300 metri. Tra le due file ci sono delle mine sotterrate più di sessant’anni fa e che Ankara si era impegnata a togliere entro la fine del 2014.
I curdi hanno sempre dovuto convivere con la repressione e le violenze del governo centrale. Adesso si trovano anche a subire i contraccolpi della guerra. «Noi vorremmo portare medicine e vestiti a coloro che vivono in Siria. Quando non ci lasciano passare lanciamo le cose al di là del muro – racconta Gökkan – In tv dicono che ci sono dei contrabbandieri; per noi questo non è contrabbando ma un aiuto. Il confine degli Stati non coincide con il confine dei popoli, quindi per noi il contrabbando non esiste. Laggiù ci sono i nostri familiari».
L’odissea dei curdi, il più grande popolo senza stato, è iniziata all’indomani della prima guerra mondiale, con la fine dell’Impero Ottomano, quando il loro territorio è stato diviso tra l’Iran, la Siria, la Turchia e l’Iraq. Per il sindaco di Nusaybin questo muro è riuscito a creare una nuova unità con coloro che vivono al di là del confine. «Il governo lo ha costruito per dividerci, ma invece ha distrutto le barriere che le persone avevano in testa – spiega – ormai questa non è più Turchia e quella non è più Siria. Questa terra è di chi ci abita sopra, lo Stato e la regione non sono più importanti».

Gokkan ha scelto di non ricandidarsi e con le elezioni amministrative è stato scelto un nuovo sindaco, sempre del partito filocurdo del Bdp Nusaybin. Ma nonostante questo per lei la battaglia non è finta. «Finché sarò in vita non lascerò che ci sia questo muro davanti ai miei occhi»...
(Frontierenews.it)

Nigeria: Amnesty International denuncia crimini di guerra e contro l'umanità nel nord-est del paese La Nigeria sempre più nel caos. Le vittime delle violenze si contanto a centinaia...





Amnesty - In un rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha denunciato l'aumento della violenza nel nord-est della Nigeria, dove nei primi tre mesi del 2014 sono state uccise almeno 1500 persone, oltre la metà delle quali civili, a causa dell'aumento degli attacchi del gruppo armato islamista boko haram e delle rappresaglie incontrollate delle forze di sicurezza del paese. 
"Siamo di fronte a un conflitto armato non internazionale in cui tutte le parti stanno violando il diritto internazionale umanitario. Sollecitiamo la comunità internazionale ad assicurare indaginirapide e indipendenti su quelle azioni che potrebbero costituire crimini di guerra e crimini contro l'umanità" - ha dichiarato Netsanet Belay, direttore per la ricerca e l'advocacy sull'Africa di Amnesty International. 

"Oltre 1500 morti in tre mesi indicano un allarmante peggioramento della situazione. La comunità internazionale non può continuare a girare lo sguardo di fronte alle esecuzioni extragiudiziali, agli attacchi contro i civili e agli altri crimini di diritto internazionale che vengono commessi su scala massiccia. La popolazione civile sta pagando un prezzo pesante a seguito dell'intensificarsi di questo ciclo di violenze e rappresaglie" - ha aggiunto Belay. 

Oltre la metà delle uccisioni sono state commesse da boko haram, che ha deliberatamente preso di mira alunni delle scuole del nord-est della Nigeria. 

Amnesty International ha documentato le uccisioni compiute da boko haram e dalle forze di sicurezza nigeriane da gennaio a marzo, sottolineando la data del 14 marzo, giorno in cui le forze di sicurezza hanno scatenato una brutale repressione contro ex detenuti. 

Quel giorno, Boko Haram ha attaccato la base militare di Giwa, nella città di Maiduguri, nello stato di Borno, liberando diverse centinaia di detenuti. Dopo che l'esercito ha ripreso il controllo della situazione, intorno alla città sono stati trovati oltre 600 corpi, per lo più di detenuti nuovamente catturati e privi di armi. Sulla base di interviste con abitanti, avvocati, attivisti per i diritti umani e personale medico degli ospedali della zona nonché di immagini satellitari, Amnesty International ha potuto in parte ricostruire gli eventi del 14 marzo e localizzare tre possibili fosse comuni. 

"La dimensione delle atrocità compiute da boko haram è veramente scioccante e ha contribuito a creare un clima di paura e d'insicurezza. Ma questo non può giustificare la brutalità della risposta che va chiaramente attribuita alla forze di sicurezza" - ha commentato Belay. 

Tra le testimonianze raccolte da Amnesty International, alcune hanno descritto cosa è accaduto quando i militari hanno trovato 56 degli evasi dalla base di Giwa: 

"Erano in una scuola. Hanno cominciato a urlare 'Non siamo di boko haram, siamo dei detenuti!'. Io e i miei vicini abbiamo visto i soldati portare gli uomini in un posto chiamato 'la terra di nessuno', dietro l'Università di Maiduguri. Hanno aperto il fuoco, li hanno uccisi tutti e 56 di fronte a noi." 

Altri testimoni oculari hanno raccontato come membri della "Task force civile congiunta" - gruppi di civili che collaborano con l'esercito nigeriano - hanno catturato altri ex detenuti nel quartiere di Jiddari Polo, sempre a Maiduguri e li hanno consegnati ai soldati. In questo caso, sono state uccise oltre 190 persone: 

"Ho visto i soldati ordinare loro di sdraiarsi a terra. Poi si è aperta una discussione con la Task force. I soldati hanno fatto alcune telefonate e pochi minuti dopo hanno iniziato a sparare. Ho contato 198 corpi" - ha riferito un testimone. 

Data l'apparente incapacità e assenza di volontà delle autorità nigeriane di indagare su questi crimini e punire i responsabili, Amnesty International ha chiesto alla Commissione africana e alle Nazioni Unite di assistere la Nigeria nelle indagini su azioni che potrebbero costituire crimini di guerra e crimini contro l'umanità a carico sia di boko haram che delle forze di sicurezza nel nord-est del paese. 

"Le uccisioni sommarie di questi detenuti costituiscono esecuzioni extragiudiziali e sono crimini di diritto internazionale. 

Questi atti fanno seguito a tutta una serie di decessi in custodia di persone imprigionate in relazione a quanto sta accadendo nel nord-est della Nigeria. La comunità internazionale, e in particolare la Commissione africana sui diritti umani e dei popoli e il Consiglio Onu dei diritti umani devono assicurare con urgenza l'apertura di un'indagine esaustiva, imparziale e trasparente sulle denunce di crimini di guerra e crimini contro l'umanità in Nigeria" - ha commentato Belay. 

Amnesty International ha inoltre chiesto all'Unione africana, alla Comunità economica degli stati dell'Africa occidentale e al Consiglio per la pace e la sicurezza dell'Unione africana di occuparsi immediatamente del conflitto nella Nigeria nordorientale e di fornire pieno e concreto sostegno per porre fine a questi atti di violenza contro i civili. A questi organismi, Amnesty International chiede infine di condannare i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità commessi da entrambe le parti. 

"Il mese prossimo, la Nigeria assumerà la presidenza del Consiglio per la pace e la sicurezza dell'Unione africana. L'Unione africana deve chiedersi fino a che punto i suoi stati membri stiano mantenendo l'impegno di promuovere i principi dell'Unione africana e il rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani"...(La Perfetta Letizia)

Dalla Siria duemila jihadisti in Europa...





Hanno passaporti occidentali e sono addestrati alla guerra. L’intelligence: difficili da controllare

INVIATO A WASHINGTON
Qualche giorno fa Nicholas Michael Teausant, un californiano membro della Guardia Nazionale, è stato arrestato al confine con il Canada. Voleva espatriare per poi andare in Siria, a combattere con gli jihadisti che cercano di abbattere il regime di Assad, per sostituirlo con uno stato islamico. Sui media la faccenda è passata quasi inosservata, ma i servizi di intelligence ne hanno parlato tra loro, perché è l’ultimo esempio di un fenomeno in drammatico aumento.  

Da tempo si sapeva che alcuni occidentali erano partiti dall’Europa e dagli Stati Uniti, per unirsi ai gruppi più estremisti dell’opposizione siriana. I numeri però stanno aumentando, proprio ora che Assad sembra avere la meglio, al punto che gli addetti ai lavori ne hanno parlato anche durante il recente viaggio in Europa e Arabia Saudita del presidente Obama. Non a caso, tra i punti più importanti discussi dal capo della Casa Bianca con il re saudita Abdullah c’è stata proprio la richiesta di interrompere gli aiuti di Riad agli jihdisti siriani, per la minaccia che rappresentano per il futuro di Damasco, ma anche per la sicurezza dell’Occidente. 

Il 4 febbraio scorso il direttore della National Intelligence americana, James Clapper, aveva detto al Congresso che circa 50 cittadini degli Stati Uniti si sono uniti ai terroristi in Siria. Gli specialisti di Washington, però, sono saltati sulla sedia, quando di recente hanno sentito le stime dei colleghi del Vecchio continente, secondo cui gli europei reclutati dagli jihadisti sono tra 2.300 e 2.400. Un esercito di persone dotate di passaporti perfettamente legali, che consentono loro di viaggiare liberamente in tutti i Paesi dell’area Shenghen. Bombe ad orologeria, pronte ad esplodere quando rientreranno in Europa, se sopravviveranno alla carneficina siriana. 

Alcune di queste storie sono note. Ad esempio quella dei fratelli britannici Mohamed e Akram Sebah, 28 e 24 anni, morti in combattimento. O quella dei fratellastri francesi Jean-Daniel, 22 anni, ucciso ad Aleppo, e Nicolas, 30 anni, che si è fatto saltare in aria come martire ad Homs. Il 6 gennaio scorso due quindicenni sono scomparsi dalla loro scuola a Tolosa, e sono ricomparsi in un campo di addestramento jihadista. In Italia sono una decina i militanti «sotto osservazione». 

Il percorso è abbastanza simile per tutti. Vengono reclutati in Europa, via Internet o attraverso organizzazioni come Hizb al Tahrir, e trasferiti nelle basi della Turchia sud orientale. Qui consegnano i loro passaporti europei, e ricevono identificativi siriani. Una volta imparate le tecniche di combattimento, inclusa la costruzione di autobombe e giubbotti da kamikaze, attraversano il confine ed entrano in azione. Vengono soprattutto da Francia, Germania, Gran Bretagna, ma anche Danimarca, Olanda, Norvegia, Belgio, Austria e Italia. In genere finiscono nei gruppi più estremisti, come Jabhat al Nusra e Islamic State of Iraq. 

I loro passaporti vengono consegnati ad altri jihadisti che gli somigliano, per farli entrare liberamente in Europa e costruire cellule. Il vero incubo dell’intelligence, però, è l’ondata di ritorno, cioè il momento in cui i cittadini di Schengen addestrati e radicalizzati durante la guerra in Siria torneranno a casa. Estremisti delusi dal fallimento dell’offensiva con Assad, ma decisi a mettere la loro esperienza bellica al servizio del terrorismo, per colpire in Europa o negli Stati Uniti.  

E proprio ieri, in Germania, sono stati arrestati due uomini recentemente tornati dalla Siria e sospettati di essere parte dell’organizzazione qaedista dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis). Sono un 35enne cittadino tedesco di Berlino e un 26enne turco di Francoforte, che avrebbero combattuto a lungo in Siria.  
I servizi di intelligence conoscono da tempo il fenomeno e seguono i casi che conoscono. Ora, però, il reclutamento mira soprattutto ai ragazzi incensurati, e i numeri negli ultimi mesi sono aumentati al punto da rendere quasi impossibile controllarli tutti, per evitare che prima o poi colpiscano...
(La Stampa Esteri)

Botswana...divieto di caccia per i Boscimani affamati ma non per i collezionisti di trofei...





Il Presidente del Botswana Khama ha vietato ogni tipo di caccia nel paese: il divieto si estende anche ai Boscimani che cacciano per nutrire le loro famiglie, mentre è stata fatta un’eccezione per i collezionisti di trofei che pagano fino a 8.000 dollari per cacciare giraffe e zebre.
I turisti benestanti, infatti, vengono incoraggiati a visitare il Botswana per cacciare grossa selvaggina nei ranch privati, che sono stati esentati dal divieto. Invece i Boscimani della Central Kalahari Game Reserve del Botswana, che cacciano da millenni con lance, archi e frecce, vengono arrestati, picchiati e imprigionati perché cacciano per sostentarsi.

Il divieto viola apertamente una storica sentenza del 2006 della Corte Suprema del Bostwana, che ha riconosciuto ai Boscimani il diritto a cacciare nella propria terra ancestrale all’interno della riserva. In febbraio il Presidente Khama è stato tra gli ospiti d’onore alla conferenza internazionale di Londra contro il bracconaggio, a fianco del Principe Carlo e William. In quella occasione il Principe William ha lanciato la United for Wildlife, una campagna che unisce sette grandi organizzazioni ambientaliste, tra cui anche l’americana Conservation International (CI). Il Presidente Khama è membro del direttivo di CI.
Alcune delle comunità interessate dal divieto del 2014 hanno ricevuto pacchi di alimenti, ma i Boscimani della riserva sono stati lasciati a morire di fame, senza alcuna assistenza da parte del governo. Per assurdo, l’Organizzazione del Turismo del Botswana utilizza immagini di cacciatori Boscimani per attirare i turisti e, in modo particolare, i cacciatori di grandi animali. Survival chiede il boicottaggio del turismo in Botswana.

Roy Sesana, leader della tribù, ha spiegato il profondo significato che la caccia riveste per i popoli indigeni come i Boscimani. “Sono cresciuto come un cacciatore. Tutti i ragazzi e gli uomini del mio popolo erano cacciatori. Cacciare vuol dire cercare e parlare agli animali. Noi non rubiamo. Noi andiamo e chiediamo. Sistemiamo una trappola, o camminiamo con l’arco e una lancia. Possono volerci giorni interi. Finalmente vedi le tracce dell’antilope. Lei sa che sei tu sei lì, lei sa che ti deve dare la sua forza. Ma si mette a correre e tu devi inseguirla. Correndo, diventi come lei. La corsa può durare ore e, alla fine, ci fermiamo stremati entrambi. Allora le parli e la guardi negli occhi. È così che lei capisce che deve darti la sua energia, perchè i tuoi bambini possano sopravvivere.”

Di recente il direttore di Survival Stephen Corry ha denunciato che il movimento per la conservazione è stato fondato da sostenitori dell’eugenetica e di altre teorie di estrema destra, e che il primo parco nazionale fu istituito sulle terre dei popoli indigeni dopo che questi erano stati sfrattati.
“La scelta di proibire la caccia praticata per sfamare la propria famiglia, e permettere ai ricchi di cacciare per avere un trofeo è legata ad una lobby ancora molto radicata in credenze razziste sull’inferiorità dei popoli indigeni” ha commentato oggi Stephen Corry, Direttore generale di Survival International. “Il movimento per l’istituzione di parchi nazionali ha causato lo sfratto forzato, e spesso la completa distruzione, delle tribù che vivevano di quella terra. Oggi le immagini satellitari dimostrano che molti popoli indigeni sono i migliori conservazionisti al mondo, ma nonostante questo vengono ancora perseguitati e annientati. Questa non è “conservazione”, è solo un vecchio crimine colonialista ed è tempo che le organizzazioni responsabili vi si oppongano. Oggi, però, si nascondo dietro politiche vuote mentre continuano a sostenere governi colpevoli di questi comportamenti disumani.”

(Survival International)

QATAR. Il mondiale-killer che i migranti dovrebbero ringraziare...





Nuovo allarmante rapporto della Confederazione Internazionale dei Sindacati: 4 mila migranti moriranno nei cantieri dell’emirato entro il 2022. Ma Doha insiste: “Aiutiamo le economie in via di sviluppo”. E paga 5 euro ai lavoratori stranieri per riempire gli spalti durante le partite.

di Giorgia Grifoni
Roma, 31 marzo 2014, Nena News – Quattromila lavoratori immigrati moriranno per realizzare il Mondiale del 2022. A dare l’allarme, è stata la Confederazione Internazionale dei Sindacati, che in un rapporto diffuso qualche giorno fa ha stilato un resoconto sulle condizioni di vita e di lavoro di un milione e 400 mila immigrati in Qatar, perlopiù impiegati nei cantieri della futura Coppa del Mondo. Basandosi sui dati diffusi nei mesi scorsi da alcune ambasciate presenti nell’emirato,  la Confederazione è riuscita a elaborare un tasso di mortalità.
Al di là delle previsioni, le cifre attuali sono preoccupanti: da quando il Qatar si è visto assegnare il Mondiale 2022 nel 2010, 400 cittadini nepalesi sono morti nei cantieri dei nuovi stadi. Le cifre si alzano parecchio tra i lavoratori indiani, con una media di decessi di circa 220 persone l’anno a partire dal 2011. Secondo i dati diffusi da Kathmandu, la prima causa di morte è l’arresto cardiaco, seguito da incidenti stradali e incidenti sul lavoro. Condizioni disumane come la privazione del cibo e dell’acqua – una condanna a morte nelle torride estati del Golfo – sarebbero all’origine dei decessi “innaturali” di giovani uomini tra i 20 e i 30 anni.
Nel rapporto diffuso dalla Confederazione si scorrono via via le testimonianze non solo dei lavoratori, ma anche di alcuni datori di lavoro: “Sono andato al cantiere questa mattina alle 5 – racconta un manager – e c’era sangue dappertutto. Non so cosa sia successo, ma nessun rapporto era stato stilato sull’accaduto. Quando l’ho segnalato, mi è stato detto che se non avessi smesso di lamentarmi sarei stato licenziato”.
Il Qatar, pressato ormai da mesi dalle organizzazioni umanitarie e dalle unioni sindacali, sembra fare orecchie da mercante. Dopo le prime denunce e le minacce sul fatto che se non avesse migliorato gli standard lavorativi avrebbe perso il suo diritto a ospitare il Mondiale, Doha aveva adottato due carte, che avrebbero dovuto garantire ai migranti un miglioramento delle condizioni di lavoro e la concessione di diritti umani fondamentali. Entrambe sono prive di valore, in quanto non c’è nessun organo indipendente che controlli l’implementazione delle decisioni – redatte dagli appaltatori – riguardo ai salari, orari e condizioni di lavoro.
Secondo la Confederazione, infatti, nulla potrà cambiare fino a quando resterà in piedi la Kafalah,  il sistema di sponsorizzazione esistente nel Golfo che permette al lavoratore immigrato di ottenere un visto di lavoro solo a contratto firmato, e che lega la sua permanenza nel Paese al padrone di cui diventa un vero e proprio schiavo. Stipendi non versati, condizioni di lavoro irregolari e abusi non costituiscono, per le leggi dei paesi del Golfo, una valida ragione per sciogliere il contratto di lavoro da parte del migrante. Solo il padrone può farlo: e spesso, a questo punto, il lavoratore immigrato viene rimpatriato.
Eppure Doha insiste nel voler dribblare le accuse di violazioni dei diritti umani e punta costantemente  all’efficienza del suo sistema di costruzioni. “C’è un concetto sbagliato sulla questione dell’occupazione in Qatar – ha dichiarato il ministro degli Esteri Khalid bin Mohammad al-Attiyah in una conferenza stampa con il suo omologo tedesco Frank-Walter Steinmeier – e  il legame tra la questione dell’occupazione e la Coppa del Mondo 2022 è evidente. Stiamo seguendo una strategia nazionale (Qatar National Vision 2030) e le infrastrutture per gli impianti sportivi in Qatar per la Coppa del Mondo 2022 sono quasi complete”. Immancabile, come da copione, la promessa di impegnarsi del miglioramento degli standard lavorativi nel Paese messi in luce dai media internazionali: “Il Qatar sta davvero optando per lo sviluppo e per il miglioramento del tenore di vita della forza lavoro, e questo è richiesto dalla nostra Costituzione”, senza dimenticare la benevolenza di un Paese che “aiuta molto anche le economie dei Paesi che partecipano al suo sviluppo e gli forniscono manodopera”.
I migranti e il loro paesi di provenienza, quindi, dovrebbero ringraziare il Qatar per gli stipendi e le rimesse che garantisce loro. E non solo: l’emirato è talmente generoso da pagare i migranti per andare allo stadio a vedere le partite di calcio. La notizia è stata diffusa due settimane fa da France 24: alcuni uomini andrebbero regolarmente negli alloggi dei migranti per reclutarli, consegnando loro il corrispettivo di 5 euro e un biglietto per una delle partite del campionato locale. Il motivo? Gli stadi sarebbero vuoti. Secondo un sondaggio effettuato lo scorso novembre, i qatarioti sono riluttanti ad andare alle partite per via del caldo, del traffico e per la mancanza di tempo libero. Ma, soprattutto, perché gli spalti sono pieni di immigrati pagati. 
(Nena News)

Egypt: Relatives mourn death of 22 year-old journalist Mayada Ashraf...





Mar 31, Cairo – Relatives of 22 year-old journalist Mayada Ashraf, who was killed during clashes between Egyptian police and Muslim Brotherhood supporters, mourn during her funeral in El-Monofiya, north of Cairo, Egypt, Saturday, March 29, 2014.
Ashraf, who worked for the privately owned El-Dustour newspaper, was one of four people killed during clashes between security forces and hundreds of supporters of ousted Egyptian president Mohammed Morsi who took to the streets Friday to protest the decision by the country’s former military chief to run in upcoming presidential elections.
Press journalist for HRO media – Khizer Hayat contributed to this report
(Human Rights Obserbes)

Se la Siria non scalda più i cuori...





La foto della piccola Israa al-Masri con gli enormi occhi già spenti prima di morire di fame nel campo profughi palestinese di Yarmouk, a Damasco, ha fatto il giro del pianeta. Anche quella dell’infinita coda per il pane scattata qualche settimana dopo nello stesso campo è stata ripresa da tutti i media internazionali. Ne abbiamo scritto, ne abbiamo parlato. Ma dura poco. Un gran voltastomaco globale e finisce lì. Perché la Siria non scalda i cuori. 

Secondo le maggiori organizzazioni umanitarie mondiali nessuna crisi ha sensibilizzato meno l’opinione pubblica della mattanza in corso ad appena tre ore di volo dall’Italia. Gli stati donano poco, come conferma l’Onu che ha appena lanciato il più grande appello della storia chiedendo 6,5 miliardi di dollari (finora solo il 12% dei 2,3 miliardi di dollari promessi in Kuwait dalla Conferenza dei Donatori sono stati versati). Ma i privati, solitamente assai più emotivi e generosi dei loro governanti, donano ancora meno.  

«Il 2014 potrebbe essere perfino peggio del 2013 quando, a parte lo tsunami nelle Filippine, non c’è stata “competizione” umanitaria. Adesso invece, ad aggiungersi al fatto che la Siria non commuove, stanno esplodendo altre crisi, in Centrafrica, in Sud Sudan, e siamo solo all’inizio dell’anno» osserva Jonathan Campbell, coordinatore dell’emergenza Siria per il World Food Programme (Wfp) in Giordania, dove il solo campo profughi di Zaatari ospita circa 150 mila persone, distribuisce 22 tonnellate di pane ogni mattina e costa un milione di dollari al giorno. A novembre, per le Filippine, il Wfp raccolse in poco tempo oltre il 90% degli 88 milioni di dollari stimati per l’emergenza cibo anche grazie alle donazioni online dei privati. Per la Siria non si è neppure al 39% dei fondi necessari. 

Certo, la Siria ha numeri da brivido. A tre anni dalla rivolta contro Assad iniziata pacificamente e degenerata in una feroce guerra civile siamo a almeno 140 mila morti (7 mila bambini), 3 milioni di rifugiati all’estero (l’80% dei quali dipendenti dagli aiuti) e 9,3 milioni di sfollati all’interno del paese, una catastrofe umanitaria da 40 milioni di dollari alla settimana. Come se non bastasse, da quando l’accordo Usa-Russia sulla distruzione delle armi chimiche di Damasco ha tranquillizzato le coscienze e permesso ai riflettori mediatici di puntare senza remore altrove il massacro si è addirittura intensificato.  

Perché la Siria non scalda i cuori? Chi ci lavora fa una sintesi cruda: la Siria appare una giungla in cui non si distinguono i buoni dai cattivi, viene percepita come uno strascico delle ormai abusate primavere arabe e, diversamente dalle catastrofi naturali, induce a pensare che la popolazione se la sia un po’ cercata per cui noi, con tutti i guai che abbiamo, possiamo fare ben poco. Il risultato è sul sito di Agire (Agenzia Italiana per la Risposta alle Emergenze): «Grazie alla generosità degli italiani sono stati raccolti per le Filippine 427.000 euro»; «Grazie alla generosità degli italiani sono stati raccolti per la Siria circa 92.000 euro». 

Non c’è tempo. Oxfam (promotrice della campagna #WithSyria firmata dal guru della street art Bansky) denuncia che senza un’adeguata risposta economica i siriani, dentro e fuori al paese, resteranno presto senza cibo, acqua, riparo, medicine, istruzione. La difficoltà di raccogliere fondi ha già imposto una riduzione del 20% nella fornitura di cibo. Save the Children stima che 5 milioni di bambini siano bisognosi di assistenza mentre l’Unicef chiede 222,192,134 di dollari per non interrompere il crescente bisogno di acqua potabile, igienizzazione, scuole e materiale didattico, vaccinazioni (solo a Zaatari nascono almeno 6 bambini al giorno). Se una Siria così non scalda i cuori è forse un problema suo, ma anche dei cuori...
(LA STAMPA EDITORIALI)

Corea...scambio di altiglieria al confine dopo esercitazione del Nord...





Seul ha immediatamente deciso l'evacuazione d'urgenza di Baengnyeong e di altre isole nel Mar Giallo


Duello di artiglierie tra Corea del Nord e del Sud lungo la frontiera marittima in contestazione tra i due Paesi. La Corea del Nord ha sparato 500 colpi d'artiglieria in un'esercitazione con munizioni vere nel Mar Giallo, un centinaio dei quali sono piovuti nelle acque territoriali sudcoreane, al di là del contestato confine marittimo tra i due Paesi. Lo ha denunciato il portavoce del ministero della Difesa di Seul, Kim Min-Seok, dopo che le manovre di Pyongyang protrattesi per tre ore avevano provocato la risposta della Corea del Sud che ha sparato verso le acque nordcoreane. Non si ha notizia di vittime o danni. Seul ha immediatamente deciso l'evacuazione d'urgenza di Baengnyeong e di altre isole al confine con il Nord. In precedenza Pyongyang aveva istituito un divieto di sorvolo e di navigazione in un'ampia area del mar Giallo, lasciando presagire che erano imminenti test balistici. Seul ha chiesto l'evacuazione degli abitanti dell'isola di controllata dal Sud. Un portavoce del Ministero della Difesa di Seul ha parlato di "intenzioni ostili" da parte del Nord, che potrebbero "creare una situazione di crisi nella penisola coreana, alzando il livello della tensione". L'esercitazione nordcoreana segue di 24 ore l'annuncio del Nord di avere in programma un "nuovo tipo" di test nucleari. Si tratterebbe del quarto test nucleare per Pyongyang, dopo quelli condotti nel 2006, nel 2009 e nel febbraio dello scorso anno, il primo sotto l'attuale presidente, Kim Jong-un. Il governo sudcoreano non ha però riscontrato segnali di un imminente test nucleare. La tensione tra le due Coree si è riaccesa nelle scorse settimane, dopo una serie di esercitazioni missilistiche di Pyongyang. Mercoledì, il Nord aveva lanciato due missili balistici a medio raggio, in violazione alle risoluzioni dell'Onu che vietano al regime retto da Kim Jong-un l'uso di missili balistici. Le Nazioni Unite hanno condannato il test nucleare, definito invece da Pyongyang come "normale pratica militare". Nei giorni precedenti Pyongyang aveva condotto diversi test con missili a corto raggio. Il test di mercoledì scorso cadeva in contemporanea al vertice tra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, la presidente della Corea del Sud, Park Geun-hye, e il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, in cui i tre leader hanno discusso della minaccia nucleare rappresentata da Pyongyang.
Redazione online
(Il Tempo.it)

Bosnia...22 anni dall’inizio dell’assedio di Sarajevo...





Di Gabriella Tesoro | 31.03.2014
Sono ormai passati quasi 20 anni dalla fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, ma dalla memoria di tanti bosniaci non si possono cancellare le violenze e le atrocità di una sanguinosissima guerra civile che conta fino a 250mila vittime, 50mila casi di tortura, 20mila stupri, 715 campi di concentramento e 2 milioni e 200mila persone, vale a dire la metà della popolazione prima della guerra, costrette a lasciare le proprie case.
Uno degli episodi più significativi della guerra è senza ombra di dubbio l'assedio di Sarajevo, di cui in questi giorni ricorre il 22esimo anniversario dell'inizio. La capitale venne accerchiata dalle forze serbe praticamente per tutta la durata della guerra, vale a dire dal 1992 al 1995, diventando il più lungo assedio della storia moderna, tre volte più lungo di quello di Stalingrado e un anno più lungo di quello di Leningrado.
L'assedio di Sarajevo fu la diretta conseguenza della dissoluzione della Jugoslavia. Morto Tito, che governava con il pugno di ferro un Paese estremamente eterogeneo, le diverse forze nazionaliste salirono presto alla ribalta. Con l'indipendenza di Slovenia e Croazia nel 1991, anche nella repubblica di Bosnia-Erzegovina, soprattutto tra croati e bosgnacchi (bosniaci musulmani) cominciò a diffondersi l'idea disepararsi dalla Jugoslava, che ormai stava diventando sempre più serbo-centrica. Sarajevo decise dunque di indire un referendum, che venne boicottato dai serbi. Con il 99,7 per cento dei sì, il 3 marzo 1992 la Bosnia-Erzegovina si dichiarò indipendente da Belgrado. Da lì in poi, gli eventi precipitarono in fretta.
Il 5 aprile poliziotti bosniaci di etnia serba attaccarono diverse stazioni di polizia e una scuola di formazione del ministero dell'Interno, uccidendo due agenti e un civile. Il governo bosniaco dichiarò lo stato di emergenza per il giorno successivo, ma gli attacchi dei serbi non si fermarono, anzi. Nel corso di una manifestazione, che coinvolse tutti i gruppi etnici della città, alcuni cecchini uccisero due donne tra la folla. Era iniziato l'assedio di Sarajevo.
Il governo bosniaco, ottenuto anche il riconoscimento internazionale, chiese all'occidente di distribuire nel territorio delle forze di peacekeeping che però non riuscirono a giungere in tempo, data la velocità con cui la situazione si era aggravata. Le forze dell'esercito jugoslavo presero il controllo delle colline che circondano Sarajevo e da lì cominciarono a bombardare la popolazione che di fatto si trovò inchiodata in un inferno. Bloccate tutte le vie d'accesso, tagliate le forniture per il cibo e le medicine, senza acqua, elettricità e riscaldamento, la popolazione sarajevese era destinata a morire.
Il presidente bosniaco, Alija Izetbegovic, chiese al leader jugoslavo, Slobodan Milosevic, di ritirare l'esercito dalle alture della città. Per tutta risposta, Milosevic, fece notare che la maggior parte dei soldati erano bosniaci (ma ovviamente di etnia serba) e dunque solo i militari non bosniaci lasciarono Sarajevo per fare ritorno a Belgrado. I soldati dell'esercito jugoslavo che erano di etnia serbo bosniaca rimasero ad assediare la capitale e passano sotto il comando del generale Ratko Mladic.
Gli attacchi alla popolazione divennero pressoché sistematici, sia tramite bombardamenti che attraverso gli spari dei cecchini. Tantissimi furono i cartelli messi nella città che dicevano "Pazite, Snajper", cioè "Attenzione, Cecchino!". Inoltre i serbi controllavano la maggior parte delle postazioni militari, nonché tutte le vie d'accesso alle armi. Tristemente celebri sono gli attacchi ai cittadini mentre erano in fila per l'acqua, o quelli a una partita di calcio, o ancora, quelli a piazza Markale nelle ore di punta, eventi che hanno provocato delle vere e proprie stragi.
La comunità internazionale agì subito attraverso un ponte aereo, ma anche la popolazione locale si organizzò con la costruzione di un tunnel, completato nella metà del 1993, che permise di bypassare l'embargo di armi, applicato a tutte le parte coinvolte nel conflitto, dunque anche ai croati e ai bosgnacchi. Il tunnel però divenne anche un passaggio per far giungere in città medicine, cibo e permise ad alcune persone di scappare.
In totale, i rapporti indicano una media quotidiana di 329 colpi di artiglieria sparati nella città assediata, con un picco di 3.777 raggiunti il 22 luglio 1993. Questi bombardamenti hanno danneggiato tantissime strutture, sia residenziali che culturali. Nel settembre del 1993 è stato stimato che quasi tutti gli edifici di Sarajevo avevano subito danni e 35mila erano stati completamente distrutti, compresi ospedali, centri di comunicazione, complessi industriali, strutture governative e installazioni militari. Nel mirino dei serbo bosniaci finì anche la storica Biblioteca Nazionale, dove, nel conseguente incendio, andarono distrutti migliaia di testi rarissimi.
Con il cessate il fuoco dell'ottobre del 1995 e con la pace di Dayton nel dicembre dello stesso anno, la città venne finalmente liberata. Ufficialmente, il governo bosniaco dichiarò la fine dell'assedio di Sarajevo il 29 febbraio 1996, quando le ultime forze serbo bosniache lasciarono le loro postazioni sulle colline.
Secondo un rapporto, nei tre anni di assedio, sarebbero morte circa 10mila persone, di cui 1.500 bambini. Il dramma, infatti, non ha risparmiato neanche i più piccoli. Un'analisi dell'Unicef riferisce che almeno il 40 per cento dei bambini sarajevesi è stato colpito da un cecchino, il 51 per cento ha assistito all'uccisione di qualcuno, il 39 per cento ha avuto uno o più decessi in famiglia, il 48 per cento aveva la propria casa occupata, al 73 per cento hanno bombardato la casa e l'89 per cento si è dovuto rifugiare nei sotterranei.
Oggi, Sarajevo è profondamente cambiata rispetto al periodo prebellico. Sebbene sia stata la città che è cresciuta di più in tutta la Bosnia-Erzegovina, molti edifici rimangono danneggiati e il tessuto sociale è estremamente differente. Difatti, abbandonato il tradizionale volto multietnico, oggi Sarajevo è abitata per lo più da bosgnacchi e la popolazione serba è passata da oltre il 30 per cento nel 1991 ad appena il 10 per cento. Tuttavia, i sarajevesi, benché non abbiano mai dimenticato quegli anni di violenze, terrore e atrocità, cercano di andare avanti e di ricostruire il proprio Paese, che, però sembra vivere un dopoguerra infinito. 

(International business Times)

Siria...sopravvissuto ad un primo bombardamento...al secondo no ce l'ha fatta...(Video)





Era sopravvissuto ad un bombardamento sei mesi fa, e aveva raccontato la sua storia.
Ancora una volta, ci sono stati altri bombardamenti, ma questa volta lui può raccontare la storia solo con il suo corpo....

Fonte The Syrian Revolution 2011

Siria, chi c’è dietro Bashar al Assad...





di 

Una piramide di nove uomini. Generali, comandandi e ministri. E’ il direttivo governativo che dopo oltre tre anni di guerra civile, almeno 150 mila morti e circa 4,5 milioni di rifugiati, continua a spalleggiare Bashar Al Assad nella sua lunga battaglia contro le forze di opposizione. Sono lo zoccolo duro dell’area lealista, le teste pensanti di un conflitto che ha smantellato un Paese e vanificato la sua storia.
Il primo nome è Maher al-Assad: fratello-soldato del Presidente, per la comunità internazionale è il primo imputato dell’uso di armi chimiche in Siria. L’intelligence americana lo ritiene il principale responsabile degli orrori della guerra e l’artefice di numerosi attacchi di violenza ingiustificata contro manifestazioni pacifiche. E’ nato nel 1968, e chi lo conosce lo descrive come un uomo irrequieto dal carattere forte. Tant’è che in un primo momento la guida del Paese sembrava essere destinata a lui. Poi, dopo la morte del padre Hafez, la famiglia Assad ha preferito puntare su Bashar: più cauto, più diplomatico, all’epoca oftalmologo a Londra e senza alcuna ambizione politica.
Oggi Maher è il leader della Guardia Repubblicana, la forza d’élite che protegge il regime dalle minacce interne, ed è capo della Quarta Divisione dell’Esercito siriano. Fa anche parte del comitato centrale del Partito Baath. In molti lo considerando il secondo uomo più potente del Paese. Leggenda vuole che abbia risolto una discussione con il cognato Asef Shawkat, ex ministro della Difesa oggi defunto, sparandogli a una gamba. Altri dicono allo stomaco. Viene considerato il fautore della strage di Ghouta, il primo attacco chimico di massa perpetrato nel Paese. Il punto di non ritorno. Anche se sul fatto sono numerose le testimonianze che attribuiscono ai ribelli la responsabilità del massacro.
Il secondo nome è Fahd Jassem al-Freij, attuale responsabile alla Difesa entrato in carica il 18 luglio 2012. Freij è nato ad Hama da una famiglia sunnita il 1 gennaio 1950. Si è unito all’esercito arabo siriano all’età di 19 anni frequentando l’accademia militare. Così si è laureato con il massimo dei voti come tenente nel 1971. Ha svolto per diversi anni il ruolo di Capo di Stato Maggiore durante la guerra civile. Prima di allora – secondo quanto riferito da alcuni militari disertori – Freij era stato alla guida delle Forze Speciali dell’Esercito nelle regioni di Daraa, Idlib e Hama durante le prime rivolte. C’è chi lo descrive come un tipo schivo, di basso profilo, che non ama molto la notorietà.
Il terzo nome è Ali Abdullah Ayyoub, attuale Capo di Stato Maggiore entrato in carica proprio a seguito della promozione di Freij. Prima era solo un vice e manteneva la responsabilità del coordinamento e dei movimenti delle unità dell’esercito siriano. Diversi analisti internazionali lo hanno descritto come una pedina centrale nel quadro logistico delineato da Assad nel reprimere le proteste. Oggi Ayyoub è coinvolto in prima persona negli sforzi del governo diretti a riprendere e riaffermare il controllo nelle zone controllate dai ribelli a Damasco e Aleppo.
Dopo di lui vengono Issam Hallaq e Ghassan Jaoudat Ismail: il primo è il comandante dell’Aeronautica Militare; il secondo il suo braccio destro. Per intenderci, Hallaq è l’omino che dà il via a gran parte dei bombardamenti quotidiani, ha seminato macerie ovunque, spezzato migliaia di vite. Ismail è un semplice generale ma non ha motivo di invidiarlo. Detiene il comando del servizio di intelligence della forza aerea e viene considerato uno dei leader militari più spietati di Damasco.
Mohammad Ibrahim al-Shaar è il sesto nome, veste il ruolo di ministro degli Interni. Nato nel 1950 nel governatorato di Latakia, proviene da una famiglia sunnita. Oggi è sposato e ha cinque figli. In passato ha occupato una serie di incarichi nell’ambito della sicurezza, tra cui capo della polizia militare di Aleppo e direttore del carcere di Sednaya. E’ stato tra i primi ad essere stato sanzionato dall’Unione europea con l’accusa di aver dato sfogo a maltrattamenti nei confronti dei manifestanti. Il 18 luglio 2012 la Cnn – citando la tv di stato siriana – ne annunciò la morte, poi immediatamente rettificata dagli organi governativi. Nell’attentato che colpì la sede della Sicurezza Nazionale Shaar riportò infatti solo qualche lesione.
Qasem Soleimani è il settimo personaggio dell’entourage di Assad. Non uno qualcunque. Generale iraniano, militare di brigata, dal 1998 a capo della ‘Niruye Qods’ (In lingua farsi: “Brigata Gerusalemme”), l’unità delle Guardie Rivoluzionarie responsabile per la diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica Islamica. Lui stesso ha sostenuto di aver iniziato la sua attività rivoluzionaria nel 1976, grazie agli infiammanti sermoni del Hojjat al-Eslam Rezal Kamyab. Si ritiene che Suleimani sia entrato nelle Guardie Rivoluzionarie (IRGC) immediatamente dopo la Rivoluzione del 1978. Privo di una esperienza militare, secondo quanto dichiarato da Asghar Mohammad Hosseini – veterano dei Pasdaran nella Provincia di Kerman – Qassem venne addestrato per 45 giorni. Conclusa la formazione prese servizio presso Mahabad, nella provincia denominata “Azerbaijan Occidentale”, contribuinedo attivamente alla repressione dell’insurrezione curda tra il 1979 e il 1980.
La scelta di Qassem Suleimani come comandante della Quds Force avviene tra il 1997 e il 1998; nomina motivata dalla sua profonda conoscenza delle aree tribali al confine con l’Afghanistan. Il 24 luglio del 2011 è stato inserito dall’Ue nella lista delle persone soggette a sanzioni per il loro coinvolgimento nel “fornire equipaggiamento e supporto al regime siriano nella repressione delle proteste”. Sempre nel 2011 gli Stati Uniti hanno puntato l’indice contro la Quds Force per il tentativo, fallito, di uccidere l’ambasciatore dell’Arabia Saudita negli Usa.
Hassan Nasrallah è invece un politico libanese, segretario del partito e gruppo militare sciita Hezbollah, vicino alla famiglia alawita Assad. Spesso viene etichettato con il titolo onorifico di “Sayyid“, il che denota il suo essere un discendente del profeta islamico Maometto. E’ il nono di dieci figli, nato nel 1960, si è unito ad Hezbollah dopo l’invasione israeliana del Libano nel 1982. Si è reso famoso per i suoi sermoni infuocati, i quali hanno contagiato la fede di centinaia di giovani musulmani. Sotto la guida di Nasrallah, Hezbollah è diventato un pericoloso avversario delle forze armate israeliane nel Libano del Sud ed è riuscito ad aumentare la sua capacità militare. In sostanza, ogni singolo militante del Partito di Dio spedito in Siria per combattere al fianco dei lealisti ha ricevuto il via libera di Hassan.
Ahmed Jibril è l’ultimo della serie. Nato nel 1938, è il fondatore e il capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale (FPLP-CG), parte dell’ala sinistra del movimento secolare nazionale palestinese di liberazione. Venuto alla luce nella città di Yazur, vicino a Giaffa, Jibril è ritenuto il primo combattente della vecchia guardia ad aver abbracciato l’aiuto della Repubblica Islamica d’Iran, di Hezbollah e della Jihad islamica. Dai primi anni novanta, con la crescita dei consensi di Hamas nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, Jibril ha visto declinare la propria posizione di nemico-chiave dello Stato di Israele. In Siria la sua formazione continua a sostenere l’esercito governativo nei pressi del campo profughi di Yarmouk, anche se alcuni membri del FPLP si sono opposti all’alleanza con Damasco e hanno rassegnato le proprie dimissioni. Diversi funzionari del movimento hanno dichiarato che Jibril “non appartiene alla sinistra palestinese, ma è più vicino alla destra estremista che ai rivoluzionari socialisti”.
(Il Fatto Quotidiano)

domenica 30 marzo 2014

Ucraina: spaventa l’ascesa dell’ultradestra...




Troppo spesso nel mondo della comunicazione televisiva (e non solo) si è portati allasemplificazione di problemi complessi: se da un lato questo è utile a rendere gli eventi più comprensibili, dall’altro si rischia di creare grandi fraintendimenti e vere e proprie illusioni. Il caso dell’Ucraina è emblematico: in un primo tempo la rivolta di Euromaidan è stata presentata come una civica ribellione, guidata da lungimiranti forze politiche democratiche ed europeiste. Successivamente, quando era ormai innegabile che ai vessilli dell’Unione Europea facessero compagnia nelle piazze bandiere nere e con croci runiche, ha fatto capolino sui quotidiani e sulle riviste specializzate una serie di articoli preoccupati dall’avanzata dei “fascisti di Kiev”.
Anche in questo caso si tratta di un’evidente forzatura: non tutti i nazionalisti ucraini sono “fascisti” in senso stretto, anche se è innegabile che gli uomini neri abbiano contribuito a prendere il controllo della piazza e possano rappresentare un asset, soprattutto da un punto di vista paramilitare, del debolissimo esecutivo guidato da Arsenyi Yatseniuk. L’ascesa di queste componenti desta preoccupazioni e pone più di una minaccia per il futuro della regione.
Per capire come mai a Kiev sia in ascesa il nazionalismo estremo bisogna partire da una considerazione molto semplice: l’Ucraina è un Paese essenzialmente povero, con un reddito pro-capite molto basso. Situazione che probabilmente la secessione della Crimea contribuirà a peggiorare. I suoi vicini, come la Polonia o la Slovacchia, godono di uno stile di vita che molti ucraini – specie quelli dell’Ovest, cioè sostanzialmente quelli provenienti dalle roccaforti nazionaliste di Lviv, Ternopil e Ivano-Frankivsk, i feudi della rivolta anti-Yanukovich – possono solo sognare.
Come stiamo sperimentando nell’Europa occidentale (si pensi alla Francia di Marine Le Pen), quando un popolo che ritiene di avere un grande passato – e gli ucraini sono molto orgogliosi della loro storia – si impoverisce, il risultato è quasi sempre il prevalere di un richiamo ai valori della patria, nel tentativo di restaurare ciò che è crollato. È in una situazione di recessione economica prolungata che sono ricomparsi i fantasmi del passato.
La russofobia è inoltre una componente diffusa ancora diffusa in parte dei cittadini ucraini, sia a causa della sua natura essenzialmente anti-comunista (l’Ucraina e la Crimea erano terre di menscevichi) sia a causa della furiosa opera di collettivizzazione forzata iniziata da Stalin negli anni Trenta per convertire i contadini in operai. Si calcola che la carestia susseguente all’abbandono delle terre abbia ucciso, nel 1932-33, un numero imprecisato ma altissimo di contadini. Anche per vendicarsi dell’Holomodor (gli ucraini hanno ribattezzato così la carestia assassina), l’Ucraina appoggiò l’avanzata nazista verso Mosca: un appoggio che facilitò anche lo sterminio di centinaia di migliaia di ebrei. Prima della Seconda guerra mondiale, Leopoli aveva una delle comunità ebraiche più grandi del mondo.
Nell’Ucraina post-Maidan esistono vari partiti e fazioni che si rifanno, direttamente o indirettamente, alla “resistenza anti-sovietica” e che aspirano ad un successo travolgente alle prossime elezioni politiche. L’Unione Pan-Ucraina “Libertà”, meglio conosciuto come Svoboda, è il più importante partito ultra-nazionalista. Nato nel 1991 col nome esplicito di Partito Nazional-Socialista dell’Ucraina, oggi è guidato da Oleg Tiaghnibok, che a piazza Maidan indossava un casco e uno scudo con una croce celtica in bella evidenza, insieme al numero 1488, emblema del neonazismo suprematista bianco.
Il programma politico di Svoboda propone l’abolizione del diritto d’aborto e fattispecie di reato anche per chi si dichiara solamente favorevole all’aborto. Si vorrebbe poi la messa al bando di tutti i partiti comunisti, il diritto di possedere armi, l’indicazione sui passaporti dell’appartenenza etnica e religiosa, la creazione di un arsenale nucleare ucraino, l’entrata nell’Unione Europea e l’adesione alla Nato. Ma non c’è solo Svoboda: un gruppo paramilitare chiamato “Tridente”ha attirato su di sé l’attenzione con azioni eclatanti, come rapimenti di poliziotti e assalti alle caserme. Il loro leader, Dmitrij Jarosh, viene considerata la figura più minacciosa tra quelle partorite dalle barricate di Kiev.
I partiti di estrema destra hanno lucrato consensi, e si sono poi imposti nella piazza con modi a loro congeniali, accusando un governo certamente corrotto e che non aveva fatto bene il proprio lavoro, come del resto riconosciuto dallo stesso Vladimir Putin, ma che pure aveva ricevuto un mandato popolare, per quanto opaco – come del resto tutto ciò che accade nella politica ucraina da anni.
L’Occidente quindi, nel muro contro muro contro l’Orso russo, corre il rischio di un effetto collaterale: quello di scoperchiare il vaso di Pandora del nazionalismo ucraino. Con la conseguenza che, se l’estrema destra dovesse ottenere un exploit alle prossime elezioni, la minoranza russa che vive in Ucraina avrebbe seri motivi per preoccuparsi ed eventualmente auspicare un intervento di Mosca. Il continuo ammassare di truppe al confine russo-ucraino da parte di Putin potrebbe non essere un caso.
(Europae)

Turchia, Erdogan vince le elezioni Akp primo partito ad Ankara e Istanbul...





Il premier sembra essere riuscito a compattare il suo elettorato storico, musulmano, anatolico, rurale, con una campagna muscolare nella quale ha denunciato un'infinità di "complotti" contro il Paese e contro il suo governo, orchestrati dai 'traditori' della confraternita dell'ex alleato Fetullah Gulen, con l'appoggio di lobby finanziarie laiche e di potenze straniere. L'obiettivo del premier era di 'lavare' con un successo elettorale le accuse di corruzione. Mantenendosi al potere


ANKARA - Erano state definite le elezioni della 'sopravvivenza' per Recep Tayyip Erdogan, quasi travolto nelle ultime settimane da accuse di corruzione, nepotismo, autoritarismo: ma il 'sultano' di Ankara sembra essere sopravvissuto, vincendo con un netto vantaggio le amministrative di domenica, secondo i dati ancora non definitivi diffusi dall'agenzia semi ufficiale Anadolu, già contestati dall'opposizione.
E la sua prima reazione, davanti a migliaia di sostenitori accalcati davanti alla sede del suo partito nella notte, è stata decisa: chi ha tradito pagherà. "C'e' chi cercherà di scappare domani, ma pagheranno per quello che hanno fatto". 

Il premier è apparso al balcone della sede del Akp accompagnato dalla famiglia, con accanto il figlio Bilal, con lui protagonista di una ormai celebre conversazione telefonica intercettato nella quale parlano di come 'fare sparire' milioni di euro tenuti in casa.  "Oggi il popolo ha smascherato i piani e le trappole immorali" ha tuonato e "ha dato all'opposizione uno schiaffo ottomano": "la politica dei registrazioni e delle cassette oggi è stata sconfitta" e "i politici immorali hanno perso" ha aggiunto. "La Turchia ha bisogno di una nuova opposizione" ha aggiunto sancendo che "una nuova Turchia è nata oggi. Questo è il giorno del matrimonio con la nuova Turchia". 
Il suo partito islamico Akp, con l'84% delle schede scrutinate, è il primo con il 45,6%, in calo solo di meno di tre punti rispetto allo storico 49,6% conquistato alle politiche del 2011. Il primo partito dell'opposizione, il Chp del socialdemocratico Kemal Kilicdaroglu, che lo ha ribattezzato il 'dittatore' e il 'Primo Ladro', si ferma al 28,4%, i nazionalisti del Mhp al 15.5%, i curdi del Bdp al 4,1%.

A Istanbul e Ankara, le due più grandi città del Paese che l'opposizione sperava di strappare a Erdogan, la situazione si chiarirà solo a spoglio concluso. Nella megalopoli del Bosforo, da dove è partita la parabola politica di Erdogan, che l'ha guidata dal 1994 al 1998, l'uscente Akp Kadir Topbas ha un buon vantaggio nei risultati parziali sul candidato dell'opposizione Mustafa Saigul. Ad Ankara l'islamico Melih Gokcek, il sindaco uscente, e Mansu Yavas, il candidato del Chp, sono testa a testa. Si sorpassano a vicenda con il progredire dello spoglio. Ognuno dei due ha già annunciato di avere vinto. L' 'europea' Smirne, la terza città del Paese, tradizionalmente socialdemocratica, rimane nelle mani dell'opposizione, con la maggior parte della costa dell'Egeo fino ad Antalya e con la Turchia europea; i curdi del Bdp conservano le grandi città del Kurdistan, i nazionalisti del Mhp vincono sul Mar Nero. In mezzo, in Anatolia, nelle cartine della Turchia al voto, predomina un oceano giallo, il colore dell'Akp.

Il premier sembra essere riuscito - se i risultati definitivi confermeranno la tendenza - a compattare il suo elettorato storico, musulmano, anatolico, rurale, con una campagna muscolare nella quale ha denunciato un'infinità di "complotti" contro il Paese e contro il suo governo, orchestrati dai 'traditori' della confraternita dell'ex alleato Fetullah Gulen, con l'appoggio di lobby finanziarie laiche e di potenze straniere. L'obiettivo del premier era di 'lavare' con un successo elettorale le accuse di corruzione. Mantenendosi al potere.

Una sconfitta, aveva scritto l'analista Barcin Yinancavrebbe, avrebbe potuto avviare "un processo che poteva perfino farlo finire in carcere". Ma l'opposizione, divisa, sembra non essere riuscita a dare al 'sultano' la spallata finale nonostante il mare di fango che gli si è rovesciato addosso dopo l'esplosione della tangentopoli turca il 17 dicembre, gli arresti dei figli di ministri, i milioni di dollari nascosti nelle scatole delle scarpe degli indagati, le intercettazioni telefoniche finite su internet nelle quali Erdogan ordina al figlio di far sparire milioni di euro nascosti in casa.

Il vicepresidente del Chp, Haluk Koc, questa sera ha però avvertito che i risultati definitivi potrebbero riservare sorprese, contestando la "sporca manipolazione" realizzata con la diffusione dei dati parziali questa sera. "Va tutto bene", ha detto ai militanti, che ha esortato a sorvegliare le urne "fino allo spoglio dell'ultima scheda". 
La giornata alle urne è stata macchiata anche dal sangue per scontri tra clan schierati con diversi candidati in aree rurali nelle province di Hatay e Sanliurfa, vicino al confine con la Siria: il bilancio è di otto morti e almeno venti feriti.
(RaiGiornaleradio)