Di Gabriella Tesoro
Non si fermano le proteste in Bosnia-Erzegovina, dove da inizio mese in molte città della Federazione croato-musulmana (una delle due entità che compone il Paese) si manifesta per chiedere le dimissioni di una classe politica corrotta, incapace e colpevole di aver ridotto Sarajevo in povertà.
Dopo le dimissioni dei presidenti dei cantoni di Tuzla, Zenica-Doboj, Una-Sana, e Sarajevo, un'altra testa sembra pronta a saltare: è quella di Nermin Niksic, premier della Federazione, che ha affermato nel corso di una conferenza stampa di essere pronto a dimettersi "a patto che al mio posto subentri qualcuno capace di assumersi la responsabilità per il mio lavoro" dato che "senza la stabilità delle istituzioni statali, non abbiamo la possibilità di risolvere i problemi o venire incontro alle richieste dei cittadini che protestano negli ultimi 15 giorni". Inoltre, secondo Niksic, "nessun nuovo governo potrà risolvere i problemi senza riforme in alcuni settori chiave quali la giustizia, la polizia e l'amministrazione pubblica". Insomma, Niksic pare voler gettare una grossa responsabilità all'eventuale governo successivo, mettendo già in chiaro quali sono i punti critici. La domanda è: dato che sembra perfettamente in grado di individuare i settori deboli della Federazione, perché non ha cercato lui stesso di fare qualcosa per migliorare la situazione?
Ed è proprio questo uno motivi che ha portato in piazza centinaia di bosniaci: l'immobilismo della classe politica, che non è stata in grado di sfruttare al meglio i miliardi di dollari letteralmente piovuti sul Paese dalla fine della guerra civile, portando la Bosnia a vivere da vent'anni a questa parte un dopoguerra che sembra non avere mai fine. Inoltre, oltre alla disoccupazione record e alla povertà dilagante, i manifestanti accusano i politici di aver gestito male, negli anni Duemila, le privatizzazioni delle poche aziende sopravvissute alla distruzione della guerra, portando al fallimento interi settori produttivi.
Difatti, le proteste sono cominciate a Tuzla, una città nel nord del Paese dove, dopo essere state privatizzate, sono fallite cinque aziende che davano lavoro a circa 10mila dipendenti. Ben presto, le manifestazioni hanno coinvolto molte altre città della Federazione, giungendo fino alla capitale, dove si sono verificati gli scontri più violenti, con tanto di incendio del palazzo cantonale, distruzione degli uffici e saccheggio dei chioschi adiacenti. Altrettanto violenta è stata la reazione della polizia, tant'è che Human Rights Watch ha denunciato un uso eccessivo della forza da parte delle forze dell'ordine in 19 casi, 13 a Sarajevo e sei a Tuzla, anche nei confronti di minorenni.
Dall'alta parte del Paese, nella Repubblica Srpska, l'entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina, nulla si muove. Milorad Dodik, presidente della Repubblica Srpska, ha fatto di tutto per dare alla protesta un volto etnico che in realtà non aveva, affermando che le rivolte nella Federazione, abitata da croati e bosgnacchi, puntavano a destabilizzare anche la parte serba del Paese e puntando il dito contro gli edifici governativi dati alle fiamme per rievocare i terribili anni della guerra ancora impressi nella memoria della popolazione. In sostanza, i serbi hanno preferito per lo più restarsene a casa, evidenziando le immense spaccature etniche che ancora persistono nel Paese.
Ora, la situazione è piuttosto calma. Abbandonati i modi radicali, le proteste continuano in maniera pacifica, ma è difficile dire se avranno un seguito e se porteranno davvero a dei cambiamenti. Per il momento, l'unica notizia di rilievo consiste nella formazione di diversi comitati in tutto il territorio. A Sarajevo si è svolta un'assemblea di cittadini che ha approvato un manifesto che chiede la formazione di un governo tecnico ad interim per il cantone della capitale, la creazione di un comitato indipendente che indaghi sugli scontri del 7 febbraio, il rilascio dei dimostranti in carcere e il cambiamento delle procedure di privatizzazione e adeguamento salariale.
Tuttavia, a meno che non si riesca a trovare un leader che sia in grado di unire, guidare e anche coinvolgere la parte serba del Paese (fattore indispensabile per dare alla rivolta un senso collettivo), le diverse proteste territoriali sono destinate a spegnersi lentamente. Se da un lato, è pur vero che le manifestazioni rappresentano il risveglio di una popolazione che per troppo tempo è stata praticamente sedata dai suoi stessi leader politici, dall'altra parte la società civile bosniaca rimane per lo più disimpegnata, divisa e purtroppo rassegnata a un destino che sembra tutt'altro che roseo.
(International business time)


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