di Sonia Greco
da Beirut
Mohammed Hussein Hussein non si sentiva un profugo in Siria come, invece, si sente in Libano. Faceva l’elettricista nel campo palestinese di Sbeineh, 14 chilometri a sud di Damasco, e stava pensando di sposarsi. «Una vita tranquilla», racconta a Lettera43.it mentre aspetta di potere entrare nella sede dell’Unwra, l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, di Beirut.
È in Libano da sette mesi e vuole registrarsi nella speranza di ottenere un po’ di sostegno.
L'ODISSEA VERSO RASHIDYA. Quando è arrivato dalla Siria, dopo un viaggio faticoso e pericoloso, passando per diversi posti di blocco dell’esercito governativo, e dopo avere pagato 60 mila lire libanesi (circa 30 euro) per un visto che scade tra un mese, è andato verso sud, al campo profughi palestinese di Rashidiya, cinque chilometri da Tiro.
«Il campo è pieno di gente, di altri palestinesi siriani fuggiti dalle violenze», spiega. «Manca tutto, non ci sono servizi sufficienti, non c’è lavoro e se dovrò estendere il permesso dovrò pagare altri 100 dollari, ma non ho soldi». Mentre mostra il visto sul documento di viaggio rilasciato dal governo di Damasco, racconta della sua casa distrutta dai bombardamenti, dei genitori rimasti a Sbeineh, dei suoi piani di matrimonio mandati all’aria da un conflitto che dura da due anni e mezzo e ha fatto 100 mila morti e oltre 6 milioni di sfollati, di cui 2 sono fuggiti all’estero.
IN LIBANO 1,3 MLN DI SIRIANI. Stando al governo di Beirut, nel Paese sono arrivati 1,3 milioni di siriani. Un dato che però include anche coloro che si trovavano in Libano prima che iniziasse il conflitto, circa 500 mila, di cui molti stagionali che lavoravano nelle campagne e che, con l’inizio della guerra, si sono fatti raggiungere dalle famiglie.
I palestinesi siriani, invece, sono circa 93 mila e soltanto il 7% ha una fonte regolare di reddito. Sono i più vulnerabili tra i profughi: 5 mila bambini che devono andare a scuola e 56 mila persone bisognose di servizi sanitari, che in Siria ricevevano gratuitamente e qui, invece, devono pagare e a prezzi molto alti: è uno dei servizi più cari in Libano.
L’Unwra, che li ha in carico, fatica ad affrontare l’emergenza, causando scontento tra i palestinesi.
È in Libano da sette mesi e vuole registrarsi nella speranza di ottenere un po’ di sostegno.
L'ODISSEA VERSO RASHIDYA. Quando è arrivato dalla Siria, dopo un viaggio faticoso e pericoloso, passando per diversi posti di blocco dell’esercito governativo, e dopo avere pagato 60 mila lire libanesi (circa 30 euro) per un visto che scade tra un mese, è andato verso sud, al campo profughi palestinese di Rashidiya, cinque chilometri da Tiro.
«Il campo è pieno di gente, di altri palestinesi siriani fuggiti dalle violenze», spiega. «Manca tutto, non ci sono servizi sufficienti, non c’è lavoro e se dovrò estendere il permesso dovrò pagare altri 100 dollari, ma non ho soldi». Mentre mostra il visto sul documento di viaggio rilasciato dal governo di Damasco, racconta della sua casa distrutta dai bombardamenti, dei genitori rimasti a Sbeineh, dei suoi piani di matrimonio mandati all’aria da un conflitto che dura da due anni e mezzo e ha fatto 100 mila morti e oltre 6 milioni di sfollati, di cui 2 sono fuggiti all’estero.
IN LIBANO 1,3 MLN DI SIRIANI. Stando al governo di Beirut, nel Paese sono arrivati 1,3 milioni di siriani. Un dato che però include anche coloro che si trovavano in Libano prima che iniziasse il conflitto, circa 500 mila, di cui molti stagionali che lavoravano nelle campagne e che, con l’inizio della guerra, si sono fatti raggiungere dalle famiglie.
I palestinesi siriani, invece, sono circa 93 mila e soltanto il 7% ha una fonte regolare di reddito. Sono i più vulnerabili tra i profughi: 5 mila bambini che devono andare a scuola e 56 mila persone bisognose di servizi sanitari, che in Siria ricevevano gratuitamente e qui, invece, devono pagare e a prezzi molto alti: è uno dei servizi più cari in Libano.
L’Unwra, che li ha in carico, fatica ad affrontare l’emergenza, causando scontento tra i palestinesi.
Rifugiati tra campi e insediamenti con affitti proibitivi
Beirut non ha sbarrato la strada ai palestinesi siriani, come la Giordania che ne ha limitato l’ingresso sin dall’inizio della crisi.
Non vivono tutti nei 12 campi, o negli altrettanti insediamenti non riconosciuti del Paese. Chi può affitta una casa, a prezzi proibitivi per gli stessi libanesi: 500 mila lire libanesi (250 euro) per una stanza a Beirut, la stessa cifra per un appartamento nel campo di Nahr el Bared, vicino alla città settentrionale di Tripoli, ancora semidistrutto dai raid governativi del 2007, durante i tre mesi di battaglia con gli islamisti di Fath al Islam che si erano insediati nel campo.
L'INFERNO DI SHATILA. A Shatila, invece, ne bastano 100-150. Ma questo campo di Beirut, tristemente famoso per il massacro di palestinesi durante la guerra civile, è un fazzoletto di terra di un chilometro quadrato, con strade fangose, fili elettrici che penzolano sui vicoli su cui si affacciano edifici malridotti, dove vivono circa 200 famiglie siriane e palestinesi siriane.
Si arrangiano anche in 15 in una stanza e hanno bisogno di tutto: dai servizi ai vestiti, al cibo e alle medicine.
SALUTE A RISCHIO. «Ho visto gente dormire sui tetti», dice Mahnoud M. Abbas, direttore della Ong palestinese Children & Youth Center che opera nel campo. «Queste persone sono state testimoni di atrocità e hanno problemi psicologici, inoltre le pessime condizioni di vita fanno aumentare i rischi per la salute. Molti hanno problemi dermatologici a causa della precaria situazione igienica. Dall’inizio di agosto gli arrivi sono aumentati ed è difficile sostenere questo flusso».
L’esodo dei palestinesi dalla Siria, la loro seconda diaspora, si è intensificato da quando si sono inaspriti i combattimenti nei sobborghi di Damasco, poco più di un anno fa.
ACCAMPATI PER STRADA. E chi non può permettersi di pagare un affitto o un albergo, vive per strada, nei prefabbricati, sotto le tende in insediamenti improvvisati nelle campagne, sotto i cavalcavia.
Hanan porta in un sacchetto di plastica tutti i suoi averi. Mostra il pane trovato per strada, dove vive elemosinando da quando è arrivata dalla Siria. Abitava nel campo profughi palestinese di Yarmouk, otto chilometri da Damasco, da mesi assediato dall’esercito siriano e in parte bombardato dall’aviazione di Assad. Un insediamento con la più numerosa comunità palestinese della Siria, circa un terzo dei 500 mila palestinesi che erano presenti nel Paese, relativamente ricco, dove gli abitanti il 13 settembre sono persino scesi in strada a manifestare contro la guerra.
Questa signora minuta, dall’età indecifrabile, ripete che le è rimasto soltanto dio: ha perso la casa, uno dei due suoi figli è stato ucciso e dell’altro non sa nulla. Dice di essersi registrata all’Unwra, ma di non avere ricevuto niente ed è tornata per chiedere sostegno, perché tutte le associazioni cui si è rivolta le hanno risposto che danno la precedenza a chi ha figli.
Non vivono tutti nei 12 campi, o negli altrettanti insediamenti non riconosciuti del Paese. Chi può affitta una casa, a prezzi proibitivi per gli stessi libanesi: 500 mila lire libanesi (250 euro) per una stanza a Beirut, la stessa cifra per un appartamento nel campo di Nahr el Bared, vicino alla città settentrionale di Tripoli, ancora semidistrutto dai raid governativi del 2007, durante i tre mesi di battaglia con gli islamisti di Fath al Islam che si erano insediati nel campo.
L'INFERNO DI SHATILA. A Shatila, invece, ne bastano 100-150. Ma questo campo di Beirut, tristemente famoso per il massacro di palestinesi durante la guerra civile, è un fazzoletto di terra di un chilometro quadrato, con strade fangose, fili elettrici che penzolano sui vicoli su cui si affacciano edifici malridotti, dove vivono circa 200 famiglie siriane e palestinesi siriane.
Si arrangiano anche in 15 in una stanza e hanno bisogno di tutto: dai servizi ai vestiti, al cibo e alle medicine.
SALUTE A RISCHIO. «Ho visto gente dormire sui tetti», dice Mahnoud M. Abbas, direttore della Ong palestinese Children & Youth Center che opera nel campo. «Queste persone sono state testimoni di atrocità e hanno problemi psicologici, inoltre le pessime condizioni di vita fanno aumentare i rischi per la salute. Molti hanno problemi dermatologici a causa della precaria situazione igienica. Dall’inizio di agosto gli arrivi sono aumentati ed è difficile sostenere questo flusso».
L’esodo dei palestinesi dalla Siria, la loro seconda diaspora, si è intensificato da quando si sono inaspriti i combattimenti nei sobborghi di Damasco, poco più di un anno fa.
ACCAMPATI PER STRADA. E chi non può permettersi di pagare un affitto o un albergo, vive per strada, nei prefabbricati, sotto le tende in insediamenti improvvisati nelle campagne, sotto i cavalcavia.
Hanan porta in un sacchetto di plastica tutti i suoi averi. Mostra il pane trovato per strada, dove vive elemosinando da quando è arrivata dalla Siria. Abitava nel campo profughi palestinese di Yarmouk, otto chilometri da Damasco, da mesi assediato dall’esercito siriano e in parte bombardato dall’aviazione di Assad. Un insediamento con la più numerosa comunità palestinese della Siria, circa un terzo dei 500 mila palestinesi che erano presenti nel Paese, relativamente ricco, dove gli abitanti il 13 settembre sono persino scesi in strada a manifestare contro la guerra.
Questa signora minuta, dall’età indecifrabile, ripete che le è rimasto soltanto dio: ha perso la casa, uno dei due suoi figli è stato ucciso e dell’altro non sa nulla. Dice di essersi registrata all’Unwra, ma di non avere ricevuto niente ed è tornata per chiedere sostegno, perché tutte le associazioni cui si è rivolta le hanno risposto che danno la precedenza a chi ha figli.
Mohammed e il sogno di raggiungere la Svezia
Mohammed, invece, aspetta paziente di potere fare la registrazione, sperando di riuscire poi ad andarsene. «Ho 27 anni e voglio rifarmi una vita altrove. Ho tre fratelli che vivono in Svezia e penso di raggiungerli», spiega. Se ne vuole andare dal Libano, dalla vita dei campi profughi, perché qui i palestinesi, più che in ogni altra parte, non hanno quasi diritti. Non possono possedere beni e non possono esercitare una lunga lista di professioni. E con l’arrivo dei palestinesi dalla Siria la vita dei campi, già sovraffollati, sta diventando insostenibile: mancano più di prima corrente elettrica e acqua, e il fragile sistema fognario rischia il collasso.
TENSIONI CON I LIBANESI. La competizione per gli aiuti e per i pochi posti di lavoro crea tensioni, terreno fertile per le violenze. E pure tra i libanesi, da decenni alle prese con la questione dei profughi palestinesi e segnati da una lunga e cruenta guerra civile (1975-1990), si diffonde l’insofferenza per l’aumento del numero di profughi, che secondo alcune stime potrebbe toccare i 3 milioni nel 2014: oltre la metà della popolazione libanese, che già patisce le ripercussioni della crisi economica, anche a causa della drastica riduzione dei rapporti commerciali con la Siria, e di una perdurante instabilità politica.
E poi ci sono state le bombe a Beirut e a Tripoli, e la minaccia di un attacco guidato dagli Stati Uniti contro la Siria, che hanno fatto tremare il Paese dei cedri, dove è diffuso il timore di essere trascinati in un’altra guerra.
D'altronde, un conflitto parallelo a quello siriano si combatte già da oltre un anno nella città portuale di Tripoli, tra gli alawiti di Jabal Mohsene i sunniti di Bab Tebbeneh, gli uni finanziati dagli alleati di Assad, gli altri dai sauditi; mentre i miliziani di Hezbollah combattono al fianco delle Forze armate siriane.
I TAGLI ALL'UNWRA. Sarà difficile per Mohammed riuscire a parlare con i funzionari dell’Unwra, per spiegare la sua situazione e per chiedere aiuto per andare via. La sede è blindata per una manifestazione degli abitanti del campo di Nahr el Bared, che protestano contro il taglio di 700 mila dollari deciso dall’agenzia.
Tagli all’assistenza sanitaria e ai contributi per gli affitti delle case in cui gli sfollati vivono dal 2007, in attesa che la ricostruzione iniziata cinque anni fa sia terminata. I palestinesi arrivati dalla Siria, in quello che un tempo era un insediamento noto per le sue fiorenti attività commerciali, occupano i 322 container dove ancora vivono 125 abitanti sfollati.
Un alveare di lamiera, soffocante d’estate e freddo d’inverno, dove hanno trovato rifugio 200 famiglie scappate dal conflitto tra le forze governative e gli oppositori di Assad, ormai una galassia di sigle tra cui diversi gruppi jihadisti.
CAMPI, TERRENO PER IL RECLUTAMENTO. In Libano c’è apprensione anche per la presenza di islamisti che reclutano miliziani e i campi sono un terreno fertile: la povertà, la mancanza di diritti, la crescente insofferenza per una condizione di emarginazione che dura da 65 anni, dalla diaspora provocata dalla guerra arabo israeliana del 1948.
Le emergenze si incrociano davanti alla sede dell’Unwra, delimitata da alti muri con in cima il filo spinato e protetta per la manifestazione da un consistente schieramento di forze di sicurezza.
La bandiera sbiadita che sventola sull’edificio sembra la metafora del sempre più scarso interessamento internazionale per la questione dei profughi palestinesi, finiti ai margini di ogni negoziato tentato negli ultimi anni.
L’Unwra è sempre più a corto di fondi e fatica a rispondere all’emergenza dei palestinesi in fuga dalla Siria. I soldi non sono sufficienti. Il 25 settembre il dossier libanese sarà discusso alle Nazioni Unite, a margine dell’Assemblea generale, in un incontro tra il presidente libanese, Michel Sleiman, e i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza.
In gioco c’è la stabilità e la sicurezza del Paese dei cedri, e di tutta la regione.
TENSIONI CON I LIBANESI. La competizione per gli aiuti e per i pochi posti di lavoro crea tensioni, terreno fertile per le violenze. E pure tra i libanesi, da decenni alle prese con la questione dei profughi palestinesi e segnati da una lunga e cruenta guerra civile (1975-1990), si diffonde l’insofferenza per l’aumento del numero di profughi, che secondo alcune stime potrebbe toccare i 3 milioni nel 2014: oltre la metà della popolazione libanese, che già patisce le ripercussioni della crisi economica, anche a causa della drastica riduzione dei rapporti commerciali con la Siria, e di una perdurante instabilità politica.
E poi ci sono state le bombe a Beirut e a Tripoli, e la minaccia di un attacco guidato dagli Stati Uniti contro la Siria, che hanno fatto tremare il Paese dei cedri, dove è diffuso il timore di essere trascinati in un’altra guerra.
D'altronde, un conflitto parallelo a quello siriano si combatte già da oltre un anno nella città portuale di Tripoli, tra gli alawiti di Jabal Mohsene i sunniti di Bab Tebbeneh, gli uni finanziati dagli alleati di Assad, gli altri dai sauditi; mentre i miliziani di Hezbollah combattono al fianco delle Forze armate siriane.
I TAGLI ALL'UNWRA. Sarà difficile per Mohammed riuscire a parlare con i funzionari dell’Unwra, per spiegare la sua situazione e per chiedere aiuto per andare via. La sede è blindata per una manifestazione degli abitanti del campo di Nahr el Bared, che protestano contro il taglio di 700 mila dollari deciso dall’agenzia.
Tagli all’assistenza sanitaria e ai contributi per gli affitti delle case in cui gli sfollati vivono dal 2007, in attesa che la ricostruzione iniziata cinque anni fa sia terminata. I palestinesi arrivati dalla Siria, in quello che un tempo era un insediamento noto per le sue fiorenti attività commerciali, occupano i 322 container dove ancora vivono 125 abitanti sfollati.
Un alveare di lamiera, soffocante d’estate e freddo d’inverno, dove hanno trovato rifugio 200 famiglie scappate dal conflitto tra le forze governative e gli oppositori di Assad, ormai una galassia di sigle tra cui diversi gruppi jihadisti.
CAMPI, TERRENO PER IL RECLUTAMENTO. In Libano c’è apprensione anche per la presenza di islamisti che reclutano miliziani e i campi sono un terreno fertile: la povertà, la mancanza di diritti, la crescente insofferenza per una condizione di emarginazione che dura da 65 anni, dalla diaspora provocata dalla guerra arabo israeliana del 1948.
Le emergenze si incrociano davanti alla sede dell’Unwra, delimitata da alti muri con in cima il filo spinato e protetta per la manifestazione da un consistente schieramento di forze di sicurezza.
La bandiera sbiadita che sventola sull’edificio sembra la metafora del sempre più scarso interessamento internazionale per la questione dei profughi palestinesi, finiti ai margini di ogni negoziato tentato negli ultimi anni.
L’Unwra è sempre più a corto di fondi e fatica a rispondere all’emergenza dei palestinesi in fuga dalla Siria. I soldi non sono sufficienti. Il 25 settembre il dossier libanese sarà discusso alle Nazioni Unite, a margine dell’Assemblea generale, in un incontro tra il presidente libanese, Michel Sleiman, e i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza.
In gioco c’è la stabilità e la sicurezza del Paese dei cedri, e di tutta la regione.
Domenica, 22 Settembre 2013
(Lettera 43)


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