mercoledì 1 gennaio 2020
mercoledì 12 novembre 2014
UNHCR: 13,6 milioni i rifugiati in Iraq e Siria...
L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ha denunciato ieri l’indifferenza della comunità internazionale verso gli sfollati siriani e iracheni e ha lanciato l’allarme: “990.000 persone saranno senza gli aiuti necessari a superare l’inverno”
Nena News – Sono 13,6 milioni i rifugiati siriani e iracheni. Molti di loro sono senza cibo e senza riparo. A rivelarlo è l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) che ha denunciato l’indifferenza dell’intera comunità internazionale. “O parliamo di un milione di sfollati in due mesi, o di 500.000 in una notte, il mondo lo stesso non risponde” ha denunciato ieri Amin Awad a capo dell’UNHCR per il Medio Oriente e il Nord Africa”.
Secondo i dati forniti dall’Onu dei 13,6 milioni, 7,2 sono gli sfollati interni in Siria, mentre 3,3 sono quelli che hanno lasciato il Paese. In Iraq, invece, sono 2 milioni i rifugiati interni e 190.000 persone hanno superato i confini nazionali cercando riparo in qualche altro stato. La maggior parte dei siriani sono andati in Libano, Giordania, Turchia e Iraq. Secondo Awad i paesi europei “dovrebbero aprire i loro confini e dividere i costi [rappresentati dalla presenza dei rifugiati]”.
Ma di fronte a questa crisi umanitaria di dimensioni enormi, c’è l’indifferenza della comunità internazionale. Secondo l’UNHCR mancano all’appello almeno 58,5 milioni di dollari (47 milioni di euro circa) di donazioni per aiutare 990.000 persone a superare l’inverno ormai prossimo. Denaro necessario a coprire i costi dei beni di prima necessità come vestiti caldi, cherosene, lenzuola. “Vorrei poter aiutare tutti, vorrei far stare tutti al caldo” – ha detto Awad ai giornalisti a Ginevra – “ma il mondo non sta rispondendo”.
Il direttore dell’UNHCR per il Medio Oriente e Africa ha bacchettato soprattutto Russia e Cina (entrambe nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) le quali sono ultime nella lista dei paesi donatori e che sono state, pertanto, invitate a contribuire maggiormente.
Con l’inverno alle porte e con le temperature che sono scese sotto i 16 gradi in alcune parti della Siria e dell’Iraq, l’UNHCR ha già investito 154 milioni di dollari per riparare dal freddo parte degli sfollati. Tuttavia, a causa della mancanza dei fondi, ha dovuto ridurre drasticamente il numero delle persone da aiutare. L’agenzia delle Nazioni Unite, infatti, aveva progettato di aiutare 1,4 milioni di persone in Siria e 600.000 in Iraq.
Ora, però, visto il calo di donazioni, potrà venire in soccorso solo di 620.000 persone in Siria e 240.000 in Iraq. Perciò, l’UNHCR ha dovuto fare “qualche scelta difficile su chi deve avere la priorità”. “Le necessità sono tante – aggiunge la portavoce dell’UNHCR Melissa Fleming – ma i fondi ricevuti non sono andati di pari passo con l’aumento degli sfollati”. Secondo Awad i primi ad essere aiutati saranno quelli che si trovano ad altitudini più alte dove fa più freddo. Poi ci sono i malati, gli anziani e i neonati. A proposito di questi ultimi, il capo dell’Agenzia Onu per i rifugiati per il Medio Oriente e il Nord Africa ha detto che lo scorso anno 11 di loro sono morti congelati e ha lanciato un inquietante allarme: “lo stesso potrebbe capitare quest’anno con altri bambini, con gli anziani e le persone deboli”
“I figli dell’Ebola” che non possono ritornare a casa...
Pubblichiamo oggi la testimonianza di Mohammed, uno dei bambini incontrati nel centro ad interim che gestiamo in Sierra Leone, per chi direttamente o indirettamente è stato colpito dall’Ebola. Intervenire contro l’Ebola significa infatti anche favorire il superamento dei pregiudizi sociali che la malattia genera, supportare i bambini rimasti orfani e facilitare il reintegro sociale di chi ha sconfitto l’Ebola.
Mohammed ha 11 anni ed ha perso suo padre e suo nonno a causa dell’Ebola. Sono stati accusati di aver portato la malattia nella comunità e per questo l’intera famiglia è stata mandata via e ha dovuto pagare una multa.
[All'inizio dell'epidemia il Presidente della Sierra Leone aveva concesso ai capi locali il potere di avere un proprio statuto per contenere la malattia nelle loro comunità. Nel villaggio di Mohammed hanno imposto multe a chi portava l’Ebola e inoltre chiunque avesse lasciato il villaggio per più di due giorni, non sarebbe potuto tornare.]
Mohammed si è ammalato due volte dopo la morte del padre, ma mai di Ebola. Lo hanno portato a uno dei centri ad interim di Save the Children per aiutarlo a recuperarsi dalla sua perdita. Ora vive con la madre e la nonna in una città più grande.
Mohammed così ha raccontato la sua storia
(Save the children)Eravamo a scuola quando il nostro insegnante ci ha parlato di una malattia chiamata Ebola e di persone che sarebbero venute qui con un farmaco. Ci ha detto che non avremmo dovuto accettarlo, perché era un veleno per uccidere le persone. Da allora tutti i genitori hanno smesso di mandare i figli a scuola.Qualche giorno dopo, mio nonno si è ammalato, mio padre si è preso cura di lui, puliva tutto. La persona che ha portato l’Ebola nel villaggio è stata la moglie di mio nonno, anche chi si è preso cura di lei è morto. Dopo un paio di giorni dalla sepoltura della moglie, mio nonno ha iniziato a vomitare. Dopo la sua morte lo hanno rinchiuso in un sacco di plastica e ci hanno detto che quando bevi il medicinale, dopo la morte, ti buttano nel fiume.Dopo altri due giorni mio padre si è ammalato iniziando ad avere forti dolori alla schiena. È stato difficile prendersi cura di lui, vomitava, aveva la diarrea. Dopo due giorni ci hanno detto che non potevamo vederlo. Lui non è andato in ospedale ed è morto a casa. Si è rifiutato di ricevere il trattamento a causa delle informazioni che aveva ricevuto in passato sul medicinale.Ero con mia nonna quando mi hanno detto che mio padre era morto di Ebola. Quando lo abbiamo detto al capo del villaggio, hanno detto che tutta la famiglia se ne doveva andare. Ci hanno portati via e ci hanno detto che dovevamo pagare una multa.Dopo la morte di mio padre sono andato da mia nonna. Ma dopo aver mangiato un po’ di Garri ho iniziato a vomitare e mi hanno portato a Kenema (centro di trattamento per l’ebola). Sono guarito e non era Ebola. Dopo pochi giorni, mi sono sentito male di nuovo e ho di nuovo iniziato a vomitare. Mi hanno portato a Kailahun (un centro di trattamento di Ebola di recente apertura). Ma anche questa volta i risultati erano negativi e mi hanno mandato in ospedale dove sono guarito dopo aver pagato Le 170.000 (moneta locale). Io sapevo che non era Ebola, perché non avevo sintomi come diarrea o eruzioni cutanee.Dopo essere stato dimesso mi hanno portato all’ICC (centro di cura ad interim). Ero molto solo, piangevo e pensavo a mio padre. È per questo che mi hanno portato al centro, dove ho giocato e riso. Sono stato felice. Quando mi hanno detto che sarei dovuto andare lì, ho pianto perché pensavo sarebbe stato brutto, ma quando sono arrivato ho visto che si giocava insieme, che ci davano giocattoli e da mangiare 3 volte al giorno. Quando sono andato via mi hanno dato un pacchetto con riso, secchi e piatti.Ora vivo con mia madre e non voglio tornare al mio villaggio, perché là è più probabile che le persone non parleranno con me.Non posso tornare perché dicono che siamo figli dell’Ebola. Quando mio padre era vivo faceva tanto per me, mi incoraggiava. Ma ora lui è morto, non c’è nessuno a farlo allo stesso modo, neanche mia madre.I miei amici non sono mai venuti, ero isolato, mi sentivo male. Ero felice quando giocavamo, loro non mi avrebbero più parlato. Ma ora qui giochiamo insieme, loro sanno che non ho l’Ebola, lo possono vedere.Spero di diventare un medico. Avrò bisogno del sostegno dalla mia famiglia per istruirmi. Prima andavo a scuola, ma ora non lo faccio più, prima avevo un padre, ma ora non l’ho più. La malattia è ancora dietro l’angolo. Ho ancora paura di ammalarmi. L’Ebola è reale. Non puoi toccare nessuno mentre stai giocando. Se i tuoi genitori si ammalano, devi lasciarli”
LE STERILIZZAZIONI IN INDIA...
Negli ultimi due anni in India sono stati eseguiti oltre 4,5 milioni di interventi chirurgici per limitare le nascite
Almeno dieci donne sono morte e altre 64 sono state ricoverate dopo un’operazione di sterilizzazione in un ospedale di campo nello stato del Chhattisgarh, nell'India centrale, nell’ambito di una campagna portata avanti dal governo per limitare la crescita demografica del Paese.
Circa 80 donne – tra i 26 e i 40 anni - si erano sottoposte lo scorso sabato 8 novembre a un intervento chirurgico in laparoscopia per chiudere le tube, un tipo di sterilizzazione irreversibile largamente diffuso in India. Poche ore dopo, molte avevano lamentato forti dolori, febbre e nausea, ed erano state ricoverate d’urgenza.
Il governo del Chhattisgarh ha chiesto di aprire un’inchiesta sul caso, anche se i funzionari sanitari locali negano ogni responsabilità per la morte delle donne. Il ministro di stato Raman Singh ha sospeso quattro medici per le morti sospette e ha sporto denuncia formale verso il chirurgo che ha eseguito le oltre 80 sterilizzazioni in poche ore, scrive la Bbc.
Le campagne di sterilizzazione non sono una novità in India e fanno parte di un programma nazionale a lungo termine per controllare le nascite. Con 1,2 miliardi di abitanti, si prevede che già nel 2030 l’India avrà superato la Cina come nazione più popolosa al mondo.
Ma la crescita demografica indiana rischia di trasformarsi in un'arma a doppio taglio per il governo, dal momento che circa 800 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà e, seguendo il trend positivo, sarebbero destinati ad aumentare.
Negli ultimi due anni sono stati eseguiti oltre 4,5 milioni di interventi di sterilizzazione in India e le morti in seguito a operazioni chirurgiche mirate a limitare le nascite non sono una novità: tra il 2009 e il 2012, il governo ha pagato risarcimenti per la morte di oltre 560 persone, secondo il corrispondente del Guardian, Jason Burke.
Anche se la crescita della popolazione è rallentata negli ultimi quarant’anni – dal 2,3 per cento negli anni Settanta a uno stabile 1,6 per cento nell'ultimo periodo – l’esplosione demografica è all’ordine del giorno nell’agenda politica indiana. In molte zone rurali, molto spesso i figli sono visti come braccia per lavorare piuttosto che come bocche da sfamare.
Anche se l’India è stata il primo Paese al mondo a introdurre politiche per la limitazione delle nascite, a differenza della Cina non ha adottato misure drastiche come la one child policy di Pechino, che stabilisce di obbligo per la maggior parte delle famiglie ad avere un solo figlio.
Negli anni Settanta, durante i ventidue mesi di emergenza dichiarata dall’allora primo ministro Indira Gandhi, e la conseguente sospensione dei diritti civili, milioni di uomini e donne furono sottoposti a sterilizzazione forzata in un tentativo di controllo delle nascite.
Da allora, la politica demografica indiana, si è concentrata sul combinare coercizione e incentivi per la sterilizzazione, come ricorda Soutik Biwas della Bbc. Alle donne dello stato del Chhattisgarh erano state offerte 1400 rupie (meno di 20 euro) per la sterilizzazione.
La pianificazione familiare, in India, si è da sempre focalizzata unicamente sulle donne: uno studio rivela che il 37 per cento delle donne sposate si sottopone alla sterilizzazione dopo la nascita dell’ultimo figlio desiderato.
In una società patriarcale dominata dagli uomini come quella indiana, la vasectomia (o sterilizzazione maschile) non è socialmente accettata e metodi contraccettivi alternativi sono ancora poco diffusi.
Anche se le autorità dichiarano che la sterilizzazione è volontaria, diverse Ong e attivisti sottolineano come gli incentivi, in zone marginalizzate e impoverite, possano essere uno strumento di coercizione, laddove i mariti costringono le donne a sterilizzarsi in cambio di soldi o elettrodomestici.
Tre anni fa ad esempio, nello stato del Rajasthan, una campagna governativa incoraggiava le famiglie a sterilizzarsi in cambio della più piccola automobile del colosso industriale indiano, la Tata Nano. Vicenda che ha portato al centro del dibattito nazionale le questioni etiche legate alla promozione delle sterilizzazioni da parte del governo.
(The Post Internazionale)
Isis, è donna e israeliana: Gill, la prima straniera a combattere con i curdi...
Ex soldatessa dell'Israel Defense Force, di origini canadesi, si è unita ai guerriglieri del nord della Siria. Ma è mistero sul suo passato: secondo i quotidiani israeliani, avrebbe trascorso tre anni nelle carceri degli Stati Uniti per truffa e poi avrebbe tentato di entrare nel Mossad
Si chiama Gill Rosenberg, 31 anni, canadese con passaporto israeliano, ed è la prima donna straniera ad arruolarsi alle milizie curde che combattono l’Isis in Siria. Gill, da quanto rivela una fonte curda, si troverebbe nel nord-est siriano, affiliata tra le soldatesse dell’YPJ, il principale nucleo di guerriglieri curdi presenti nel Paese. La Rosenberg, canadese di White Rock con un passato nell’aviazione di Israele, è partita dalla sua casa diTel Aviv il 2 novembre, si è fermata ad Amman, per poi volare alla volta di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Da lì, la Siria. Ma è fitto però il mistero attorno alla figura della “guerrigliera”, dopo che i giornali israeliani hanno rivelato il suopassato burrascoso, con tre anni trascorsi nelle carceri degli Stati Uniti.
In un’intervista a “Israel Radio” di lunedì, Rosenberg ha detto di trovarsi in Iraq, dove si stava addestrando con i combattenti dell’YPG, con cui si era messa in contatto su internet: “Sono nostri fratelli, brave persone, amano la vita come noi” – ha spiegato, prima di rivelare che era pronta a partire per la Siria. Malgrado non ci sia alcuna ufficialità che la voce (con chiaro accento canadese) dell’intervistata fosse la sua, una fonte interna alla radio lo assicura. I movimenti della Rosenberg sarebbero continuamente aggiornati nel suo profilo Facebook, ma anche qui non c’è alcuna sicurezza che l’account sia autentico. Da quanto si legge, la presunta Gill si mostra determinata: “Nell’esercito israeliano gridiamo ‘Aharai!’. Mostriamo all’Isis cosa significa!”. Una foto di sabato 9 novembre la ritrae fra le montagne pressoNisibis, in Turchia, al confine siriano.
Yahel Ben-Oved, la sua avvocatessa israeliana, ha rivelato di non avere notizie sul suo arruolamento con i curdi, malgrado si siano sentite di recente. Daniel Lieber, suo vecchio amico assicura: “È sempre stata interessata alle questioni politiche e sempre filo-israeliana. È incredibilmente forte, nella mente e nel corpo”. Adiv Sterman, del quotidiano “Times of Israel”, parla invece del suo presunto passato burrascoso, descrivendola, nel titolo, come una “gifter”, una truffatrice.
La vicenda risalirebbe al 2009, quando con un’operazione congiunta, Fbi e polizia di Tel Aviv avrebbero arrestato la Rosenberg insieme ad altre undici persone, tutte con passaporto israeliano, che hanno finto di aver messo in piedi una lotteria a premi, riuscendo a truffare diverse persone, per lo più anziani, tutti cittadini americani. La 31enne e i complici avrebbero frodato fino a 25 milioni di dollari. Gill, secondo la tv israeliana “NRG news” avrebbe provato invano, dopo l’arresto, a entrare nel Mossad, il servizio segreto di Israele. Fallito questo tentativo, sarebbe quindi stata estradata negli Stati Uniti, condannata a 4 anni di reclusione, ridotti a 3 dopo il patteggiamento. “Times of Israel” scrive che a rivelarlo è uno dei suoi legali che ha citato anche le carte processuali.
Ma il quotidiano è anche uno dei più vicini al governo di Benjamin Netanyahu, che ha recentemente messo su un giro di vite su quanti vadano a combattere in Siria con lo Stato Islamico o si arruolino con i ribelli al regime di Bashar Assad. Israele vieta espressamente ai suoi cittadini di entrare in territori considerati“nemici”. In sostanza, la Rosberg, qualora tornasse in suolo israeliano, rischierebbe nuovamente l’arresto. Inoltre, ancheil Canada ha simili preoccupazioni per i suoi cittadini che si trovano in Siria. Entrambi i paesi hanno comunicato di seguire attentamente il caso di Gill.
La situazione militare tra le due forze armate, nel villaggio diKobani, nel Kurdistan siriano al confine con la Turchia, è in stallo da settimane. Nonostante abbia perso circa 600 combattenti, l’Isis controlla ancora il 40 % di quel territorio. I guerriglieri curdi hanno recentemente avuto l’aiuto di circa 150 peshmerga, l’esercito curdo iracheno, che hanno portato nella zona armi e viveri.
(Il Fatto Mondo)
Siria: cessate-il-fuoco a Damasco permette ingresso aiuti...
(Agenzie) La tregua raggiunta tra gli ufficiali pro-governativi e i ribelli locali ha finalmente permesso l’ingresso in un quartiere nel Sud nella capitale siriana Damasco degli aiuti umanitari necessari.
L’accordo di cessate-il-fuoco, che secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani risale allo scorso agosto, contempla inoltre il rilascio di prigionieri detenuti dal governo Assad e conferisce all’Esercito Siriano Libero la gestione temporanea della zona.
(ArabPress)
Isis, Ong: Oltre 850 morti in raid su Siria Secondo l'Ondus tra le vittime degli attacchi della coalizione ci sono almeno 50 civili....
Ancora vittime nella lotta all'Isis.
Oltre 850 persone sono state uccise nei raid aerei della Coalizione internazionale a guida Usa sulle postazioni dell'Isis in Siria dal loro inizio, il 23 settembre.
OLTRE 50 CIVILI. A riferirlo l'ong Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus).
Tra gli uccisi, 746 sono jihadisti dell'Isis, ma anche 50 civili, tra i quali otto bambini.
Il numero di morti che l'ong dice di essere stata in grado di accertare è di 865.
FORSE OLTRE 740. L'Ondus ritiene tuttavia che il numero dei caduti tra i miliziani dell'Isis possa essere superiore alla cifra di 746, vista «la segretezza mantenuta dallo Stato islamico sulle sue perdite e la difficoltà di accesso a molte aree e villaggi colpiti».
Gli uccisi nelle file del Fronte al Nusra, la branca siriana di Al Qaida, sono invece almeno 68.
BOMBARDAMENTI SU RAFFINERIE. Molti dei civili sono morti in bombardamenti che hanno preso di mira giacimenti petroliferi e raffinerie nelle province di Al Hasaka e Deyr az Zor, oltre che Raqqa e località nelle province di Aleppo e Idlib.
FORTE CONDANNA ONDUS. L'Ondus ha espresso la sua «forte condanna» per l'uccisione di civili e fa appello perché essi siano risparmiati «da tutte le parti» nei bombardamenti e nei combattimenti.
(Lettera 43)
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